|
|
|
|
|
|
||||
SAPER APPRENDERE: VERSO LA DEFINIZIONE DI UN CURRICOLO ESPLICITO
Luciano Mariani (Lingua e Nuova Didattica, Anno XXIX, No. 4, Settembre 2000)
L'unico vero viaggio di esplorazione non consiste nell'andare in posti nuovi, ma nell'avere altri occhi. Marcel Proust
Introduzione Ho scelto queste parole di Proust per iniziare perché mi sembra che colgano il senso profondo di questo mio contributo: non tanto la scoperta di nuovi territori, quanto piuttosto lo sforzo di rivedere quanto facciamo quotidianamente in un'ottica di rinnovamento, qual è quella imposta dagli auspicati progetti di riforma della nostra scuola. In questo contributo vorrei innanzitutto analizzare la categoria concettuale del "saper apprendere"; dimostrare che si tratta di un concetto utile e produttivo, non tanto in assoluto, quanto relativamente alla fase storica che stiamo vivendo e progettando; sostenere che, come tale, merita di entrare a far parte, a tutti gli effetti, dei nuovi curricoli, e di essere dunque esplicitato in termini di obiettivi selezionati e organizzati. In quest'ottica, proporrò poi cinque criteri che possono aiutarci a definire questo nuovo curricolo, e cercherò nello stesso tempo di sottolineare i risvolti metodologici di questi criteri. Infine, accennerò ad alcune importanti conseguenze che un curricolo organizzato secondo questi criteri può avere sul nostro ruolo come insegnanti ed educatori.
1. Saper apprendere: strategie, conoscenze, atteggiamenti Da anni ormai si parla di abilità di studio, di strategie di apprendimento, di autonomia dello studente. Da qualche tempo la categoria concettuale del "saper apprendere" è stata anche riconosciuta in programmi e documenti "ufficiali", fino ad essere citata espressamente nel Quadro generale di riferimento del Consiglio d'Europa, dove viene associata strettamente ai più classici sapere, saper fare, saper essere. Dunque il saper apprendere è, in un certo senso, l'ultimo nato dei vari saperi, e, in questa proliferazione di categorie, mi sembra opportuno chiederci se si tratti di un concetto utile perché indipendente o se, al contrario, si sovrapponga in qualche modo agli altri ad esso associati. In altre parole, quali sono le ragioni che ci spingono ad isolare il saper apprendere e addirittura, come proporrò più avanti, a sostenere l'utilità di una sua definizione a livello di curricolo? E' curioso che quando si vuole tentare di definire il saper apprendere lo si faccia di solito ricorrendo alle stesse categorie del sapere, saper fare, saper essere, creando così una specie di circolo (o, forse, di cortocircuito). Certamente il saper apprendere implica, in primo luogo, delle competenze, delle strategie: può trattarsi di strategie cognitive, che ci aiutano a rielaborare le informazioni: parliamo allora, ad esempio, di inferenza, di associazione, di classificazione. Può trattarsi di strategie metacognitive, strategie che ci aiutano ad auto-gestirci nel nostro apprendimento, e allora parliamo, ad esempio, di pianificazione, di controllo, di autovalutazione. Può anche trattarsi di strategie socio-affettive, con cui cerchiamo di gestire il rapporto con noi stessi e con gli altri. Può infine trattarsi di strategie di comunicazione e di compensazione, con cui cerchiamo di ridurre al minimo gli inconvenienti della nostra limitata competenza linguistica e socioculturale, sfruttando nello stesso tempo al massimo le nostre potenzialità comunicative. In ogni caso abbiamo a che fare con modalità di comportamento concrete e operative - cioè, in definitiva, con un saper fare. Ma tutto questo, come ci dice la nostra esperienza di discenti e di docenti, non basta a definire la persona che sa imparare. Intuiamo che dietro un uso produttivo di strategie c'è ben altro, a cominciare da un insieme di conoscenze. Ognuno possiede delle conoscenze, innanzitutto, sui contenuti della disciplina che sta imparando, nel nostro caso sui concetti di lingua, di comunicazione e di cultura. Queste conoscenze possono anche esistere al livello di convinzioni ingenue, intuitive, e non necessariamente consapevoli, su che cos'è una lingua, come funziona, a che cosa serve, come si usa. Ma ognuno possiede anche delle conoscenze sui metodi della disciplina che sta imparando, nel nostro caso sui modi di acquisizione e apprendimento di una lingua. Anche in questo caso, può trattarsi di convinzioni più o meno consapevoli su come si impara una lingua, su che cosa può facilitarne o ostacolarne l'apprendimento, su quali caratteristiche personali entrano in gioco (1). Queste convinzioni di carattere generale sulla lingua e sull'apprendimento sono strettamente associate a parallele convinzioni che ciascuno di noi ha su se stesso in quanto persona e in quanto persona che impara. Facciamo un esempio. Se penso che una lingua sia innanzitutto un insieme di vocaboli che occorre memorizzare, userò in modo più o meno efficiente delle strategie di memorizzazione, a seconda che ritenga di avere o non avere una buona memoria. Se invece penso che una lingua sia soprattutto un mezzo per comunicare ad ogni costo, anche correndo rischi e facendo magari "brutte figure", questo mi aiuterà a usare strategie di comunicazione e di compensazione, ma solo se ho di me un'immagine di persona estroversa, che ama correre rischi e non ha paura di commettere errori. Dunque le conoscenze personali sono un fattore essenziale del saper apprendere - in definitiva, sono un sapere, ma un sapere un po' particolare, che non è mai neutro, ma anzi, influenza in modo più o meno diretto atteggiamenti, valori, aspettative, motivazioni. Le mie conoscenze, in quanto convinzioni o "rappresentazioni mentali", condizionano la percezione che ho delle mie capacità e del mio ruolo come persona che impara: funzionano, insomma, da filtro cognitivo e affettivo (2). Ad esempio, se penso che sia essenziale che i propri errori siano corretti sempre e subito dall'insegnante, mi aspetterò che l'insegnante svolga questo ruolo, e sarò scarsamente attirato da strategie di automonitoraggio e autovalutazione. Non avrò insomma né la motivazione né la fiducia in me stesso necessarie per usare queste strategie. In definitiva, dunque, saper apprendere implica anche degli atteggiamenti adeguati - in altre parole, un saper essere.Abbiamo così chiuso il cerchio: siamo partiti con l'idea che il saper apprendere è l'ultimo nato dei vari saperi, e abbiamo visto che però, in ultima analisi, esso stesso può essere articolato in sapere, saper fare, saper essere. Dunque il saper apprendere è, per così dire, un doppione di altri aspetti di un curricolo di apprendimento? In un certo senso, sì. In un certo senso, il saper apprendere è connaturato agli altri saperi (3). E d'altronde, come potrebbe essere altrimenti? Non si può imparare se non, paradossalmente, sapendo imparare. Ma ci sono due osservazioni che mi preme fare a questo punto, per non perderci in inutili circoli viziosi. In primo luogo, non dimentichiamoci che queste distinzioni sono modi più o meno eleganti di rendere conto di processi complessi e difficilmente esplorabili. In altre parole, costruiamo una mappa del territorio mentale per poterne parlare tra di noi, ma dobbiamo ricordarci che la mappa non è il territorio.In secondo luogo, è nella natura trasversale, transdisciplinare del saper apprendere che si origina la sua ambiguità. E questo ci aiuta a riscoprire l'unitarietà del processo di apprendimento, al di là di sia pur utili distinzioni. Facciamo qualche esempio. Saper apprendere implica, abbiamo detto, l'uso di strategie. Così, possiamo scegliere di promuovere nei nostri studenti l'uso della deduzione. Ma questo saper apprendere lo insegniamo nel concreto del saper fare, per esempio quando stimoliamo la deduzione del significato di parole sconosciute, o quando facciamo anticipare e prevedere i contenuti di un testo prima della lettura. Oppure, promuoviamo l'uso dell'induzione. Ma lo facciamo nel concreto della riflessione sulla lingua, quando per esempio facciamo ipotizzare delle regole a partire da una serie di esempi. O ancora, stimoliamo gli studenti ad usare strategie di compensazione: come chiedere aiuto all'interlocutore, verificare di aver capito e di essere stati capiti, e così via. Ma in fondo, non sono queste funzioni comunicative, che fanno già parte, in un certo senso, dei nostri sillabi linguistici? Nonostante possa essere forte la tentazione di negare una specificità al "saper apprendere", vorrei lanciarmi in una difesa appassionata di questo concetto: non però su basi teoriche o metodologiche assolute, ma in base a considerazioni molto più relative, di opportunità "politica", di necessità storica del momento che stiamo vivendo. Vorrei farmi, e fare al lettore, una serie di domande. Se insieme saremo tentati di rispondere "no", allora vorrà dire che saremo disposti a riconoscere l'originalità del concetto di "saper apprendere":
Personalmente, sono convinto che il valore trasversale di queste strategie, ma anche delle convinzioni e degli atteggiamenti associati, non è spesso riconosciuto; soprattutto, nella tradizione storica del nostro sistema, non è mai stato previsto un programma sistematico, esplicito e continuo di sviluppo di questi elementi. Tutto questo giustifica, a mio parere, proprio perché siamo in una fase delicata di ristrutturazione del nostro sistema scolastico, un posto di prim'ordine agli elementi del saper apprendere - un posto che solo un curricolo altrettanto esplicito può garantire.
2. Cinque criteri per un curricolo Proviamo allora a definire questo saper apprendere in termini di curricolo. Sappiamo che definire una disciplina o un settore di conoscenze e competenze in tali termini significa in sostanza identificare, selezionare, graduare e organizzare degli obiettivi e dei contenuti nel tempo, nello spazio e rispetto alle risorse umane e materiali. In appendice riporto una bozza di una possibile griglia di obiettivi per il "saper apprendere". Ma si tratta di repertori di riferimento e consultazione, non di un curricolo organizzato. Quali possono essere dunque dei criteri adeguati a definire e organizzare un curricolo di processi di apprendimento più che di contenuti? Propongo cinque criteri di base, senza la pretesa di essere esaustivo, ma solo con la speranza di contribuire ad aprire un dibattito. I criteri che propongo sono: flessibilità, integrazione, operatività, trasferibilità, ricorsività. Parto dalla flessibilità perché, in un certo senso, tocco il punto forse più delicato dell'intera questione. Ci chiediamo infatti: è possibile stabilire un curricolo comune di conoscenze, competenze e atteggiamenti quando sappiamo che ognuno di noi impara in modo diverso, anzi, in modo unico e irripetibile? Io credo che ci troviamo subito stretti tra due esigenze quasi inconciliabili: da una parte, la necessità di riconoscere e favorire le differenze individuali, gli stili di apprendimento personali, i cambiamenti che le persone, specialmente i giovani, sperimentano in tempi anche molto brevi; e dall'altra, la necessità di fornire dei modelli, delle proposte, delle possibilità di scelta (4). In altre parole, come riconoscere e favorire la diversità e l'autonomia personale in un contesto, come quello istituzionale, di grandi numeri e di pratiche standardizzate? Evidentemente un curricolo per il saper apprendere non può imporre modi di fare, di sapere, di essere; può però fornire occasioni sistematiche di scoperta dei propri modi di imparare (5). Distinguiamo allora tra obiettivi che riteniamo fondanti e modi individuali di raggiungerli. Faccio qualche esempio. Tutti noi riteniamo, credo, che sia importante stimolare processi di inferenza e di attenzione selettiva come primo approccio allo studio di un testo espositivo. Come questo si realizza in pratica, però, varia da individuo a individuo: qualcuno vorrà fare mente locale sull'argomento ancora prima di leggere una sola riga del testo; qualcun altro, invece, vorrà scorrere rapidamente titoli, sottotitoli e qualche frase chiave; altri privilegeranno gli aspetti grafico-visivi, le illustrazioni e le didascalie; altri ancora utilizzeranno una combinazione di più strategie. Non possiamo certo imporre tutti questi diversi approcci in modo indifferenziato: possiamo però proporli e farli sperimentare, perché a tutti venga data la possibilità di provare e poi di scegliere in base alle proprie caratteristiche personali. In questo senso il nostro curricolo potrà essere molto ricco e variato, ma, nello stesso tempo, molto aperto - aperto alla negoziazione e alla mediazione (Voller 1997: 108-111). Flessibilità significa dunque creare le condizioni perché ognuno possa scoprire la propria personale "costellazione di strategie". Un secondo criterio che vorrei proporre è quello dell'integrazione. Come abbiamo già visto, saper apprendere significa attivare contemporaneamente strategie, convinzioni e atteggiamenti. Credo che ormai pochi si illudano sul fatto che basti insegnare delle tecniche per far cambiare dei comportamenti. E allora il nostro sforzo deve andare anche, e forse soprattutto, nella direzione del sapere e del saper essere, e, in particolare, della scoperta e continua rimessa in discussione delle rappresentazioni mentali che i nostri studenti hanno della lingua, dell'apprendimento, e di se stessi (Holec 1996). In pratica, possiamo chiederci: in quali modi i nostri studenti concepiscono, ad esempio, la lettura? Fino a che punto le loro convinzioni concordano con le nostre? In che misura, per esempio, sono convinti che lo scopo della lettura e il tipo di testo determinano la scelta delle opportune strategie? Che la comprensione non si identifica con la lettura lineare parola per parola, frase per frase? Che ciò che il lettore porta al testo è altrettanto importante di ciò che il testo offre al lettore? Che rischiare di non capire subito tutto e tollerare l'ansia di questa ambiguità possono essere dei passaggi obbligati di una lettura efficiente? Per cambiare i modi di imparare occorre dunque proporre delle strategie, ma questa è solo la punta dell'iceberg: occorre nello stesso tempo affrontare il sommerso delle convinzioni e degli atteggiamenti. Il mio terzo criterio si riferisce all'operatività, cioè al legame strettissimo che lo studente deve percepire tra il saper apprendere e il contenuto di ogni curricolo disciplinare. Ciò significa che usare del tempo prezioso per imparare a imparare deve essere percepito come un investimento vantaggioso perché, in concreto, aiuta a vivere meglio lo studio e la vita a scuola, e migliora il proprio rendimento. Insomma, la scelta degli obiettivi e dei contenuti del saper apprendere dipende dalla rilevanza rispetto ai problemi effettivamente vissuti da chi sta imparando (6). Questo non è solo un criterio di efficienza, per così dire, economica, del tipo "massimo rendimento col minimo sforzo". C'è una ragione più profonda dietro tutto ciò, e cioè il possibile ruolo motivazionale delle strategie. Se imparo ad usare una strategia e questo migliora il mio rendimento, questo potrà aiutarmi a farmi sentire più capace, più in controllo del mio apprendimento, più responsabile dei miei risultati. L'uso delle strategie, in altre parole, può migliorare il proprio senso di auto-efficacia e di auto-controllo, e dunque la propria motivazione, a condizione che l'uso sia accompagnato da una presa di coscienza delle ragioni per l'uso e dei benefici ottenuti (McCombs 1988, Berbaum 1991). Questo mi porta a pensare che operatività significa fare esperienze concrete ma, nello stesso tempo, esplicite e trasparenti di modi di imparare (Mariani 1992a, Westhoff 1993, Mariani 1996). Molti di noi sarebbero pronti a riconoscere che si impara essenzialmente facendo, provando su se stessi e sperimentando cosa funziona meglio per noi. Così, per fare un esempio, se vorremo aiutare i nostri studenti a fare delle scelte e a prendere delle decisioni, dovremo prevedere, nei nostri materiali e attività, dei momenti in cui effettivamente vengono fornite opportunità di fare scelte e prendere decisioni. Tuttavia, l'esperienza concreta in sé non è sufficiente se non è accompagnata da una riflessione esplicita e trasparente su quanto si è fatto in concreto. Non è così difficile fare una buona esperienza, ma è molto più difficile trarre dall'esperienza un significato che la trascenda e si generalizzi e si trasferisca ad altre esperienze future. Questo è il ruolo della riflessione, o meglio, del ciclo "esperienza - riflessione - nuova esperienza - nuova riflessione": faccio, penso, verbalizzo e discuto come ho fatto, e rifaccio con una nuova competenza più efficiente perché più consapevole (7). Questo mi porta al quarto criterio della mia proposta, quello della trasferibilità, che in un certo senso è un'estensione del precedente. Uno dei criteri per scegliere un obiettivo del saper apprendere piuttosto che un altro, cioè per stabilire delle priorità, è il grado di generalizzabilità dell'obiettivo - o, detto in altri termini, la misura in cui una strategia, una convinzione, un atteggiamento possono trasferirsi ad altri contesti rispetto a quello in cui sono stati inizialmente considerati. E' ovvio che questi altri contesti possono essere sia nell'ambito della stessa disciplina, sia in discipline diverse. Invito il lettore a riflettere sulla serie di compiti elencati qui di seguito: quale operazione mentale comune è sollecitata da questi compiti in apparenza così diversi l'uno dall'altro?
Cos'hanno in comune questi compiti? Secondo me, l'uso di strategie di tipo inferenziale. Ma perché l'inferenza ha un così alto livello di trasferibilità, anche in senso trasversale, attraverso le discipline? Una delle spiegazioni possibili è forse questa: perchè si tratta di un meccanismo mentale di base, che consiste nell'utilizzare tutte le informazioni già disponibili nella mente per rispondere a quesiti, colmare lacune di comprensione, risolvere problemi. Ma c'è di più. L'utilizzo delle conoscenze e delle competenze pregresse, comprese quindi, per esempio, le regole, i copioni, gli schemi, è associato ad un ruolo attivo della mente, e quindi alla convinzione che le risposte ai problemi, in un certo senso, sono già in parte dentro di sé: dunque vi è associato un atteggiamento di disponibilità, cognitiva ma anche affettiva, ad agire responsabilmente, ad essere protagonisti del proprio apprendimento. La trasferibilità può quindi operare all'interno di ogni curricolo disciplinare come attraverso i curricoli delle varie discipline. Mi preme fare però una precisazione. Come è importante sottolineare il filo conduttore comune che lega l'apprendimento attraverso i vari settori disciplinari, così è altrettanto importante assicurarne la rilevanza e la compatibilità rispetto alle esigenze, cioè agli obiettivi e ai contenuti, delle singole discipline. In concreto, credo che il saper apprendere non possa risolversi tutto nella sua natura trasversale: esistono certamente strategie che si possono applicare in tutte le discipline, ma esistono anche strategie che in certe discipline hanno una valenza particolare - pensiamo, ad esempio, all'importanza del criterio della misurazione nel settore delle scienze naturali. Dunque l'integrazione trasversale dovrà accompagnarsi all'attenzione alle specifiche esigenze disciplinari. Il mio ultimo criterio, quello della ricorsività, consiste semplicemente nell'applicare al curricolo del saper apprendere quell'approccio a spirale che spesso caratterizza i curricoli disciplinari, a partire proprio da quelli linguistici. E' ormai una prassi consolidata proporre un contenuto linguistico, ad esempio una determinata forma verbale, o ancor più una certa abilità, non una sola volta per tutte, ma a più riprese, "riciclandola", per così dire, a livelli sempre più approfonditi e complessi. Se facciamo questo per i contenuti di un programma linguistico, a maggior ragione possiamo farlo per un programma che consiste essenzialmente nello sviluppo di processi. Questo criterio diventa ancora più significativo se pensiamo che molte strategie possono e devono essere sviluppate nell'arco di anni, e quindi, in verticale, attraverso vari cicli o livelli scolastici, in modo da essere progressivamente affinate in base all'età e alla maturazione cognitiva e affettiva degli studenti. Questo è un punto importante, che vorrei sottolineare ed esemplificare adeguatamente. A volte ci si chiede quando si possa effettivamente cominciare a insegnare agli studenti ad imparare. Spesso questo imparare a imparare viene identificato con operazioni cognitive complesse, che pertanto sarebbero possibili solo a partire, diciamo grosso modo, dalla preadolescenza. Capita anche di sentir dire che a livello di scuola media è ancora troppo presto per insegnare strategie, come capita di sentir dire che quando si arriva al biennio superiore è ormai troppo tardi, "i giochi sono fatti", le abitudini e anche gli atteggiamenti degli studenti si sono ormai consolidati. E' un problema che io credo sia viziato da due malintesi di base: che il saper apprendere consista soprattutto in un addestramento all'uso di strategie, e che queste strategie debbano necessariamente avere un'alta densità metacognitiva, ossia comportino livelli molto elevati di metacognizione e di metalinguaggio, cioè di consapevolezza e di capacità di verbalizzare con una terminologia adeguata. Riguardo al primo di questi malintesi, credo di aver già sostenuto più volte in questo contributo che saper apprendere non si risolve solo nell'acquisire strategie, ma comporta un'attenzione parallela alle convinzioni e agli atteggiamenti, cioè a componenti che non sono solo cognitive, ma investono la globalità della persona, e anzi, chiamano in causa in primo luogo fattori sociali e affettivi, che a tutte le età hanno una rilevanza primaria. Riguardo al secondo malinteso, e cioè il timore di proporre attività metacognitive troppo complesse, il problema si risolve proprio applicando il mio ultimo criterio, e cioè la ricorsività, lo sviluppo a spirale, il "riciclaggio" continuo (8). Non è difficile immaginare come questo possa essere realizzato, anche perché molto viene già fatto in concreto a scuola e non si tratta di scoprire grandi novità. Proviamo a pensare a una strategia metacognitiva in apparenza complessa come la gestione dei propri strumenti di apprendimento. Già a livello di scuola primaria sappiamo che è possibile, ad esempio, proporre agli studenti di suddividere il loro quaderno in varie sezioni, ciascuna delle quali raccoglierà un certo tipo di materiali. Introduciamo così anche un'importante strategia di classificazione delle proprie attività e delle proprie acquisizioni. Via via, questa organizzazione si affinerà con l'identificazione di aree di gestione del proprio apprendimento linguistico, e potremo così chiarire meglio il ruolo della grammatica, del lessico, della pronuncia, degli esercizi di pratica controllata, delle attività più creative, delle strategie di comunicazione. Questo comporterà anche l'adozione progressiva di un metalinguaggio per poter parlare con chiarezza dei contenuti del proprio apprendimento. Il quaderno potrà man mano trasformarsi, da una parte, in una banca dati personale, dove si raccoglieranno e organizzeranno i prodotti del proprio lavoro, e dall'altra parte, in un diario o giornale di bordo, dove si raccoglieranno schede di lavoro, schede di autovalutazione, note e giudizi personali, insomma, un banca dati di processi oltre che di prodotti, nell'ottica di quel "portfolio" auspicato anche dal Consiglio d'Europa (1997). Il lavoro metacognitivo diventerà via via sempre più denso, ma si costruirà a spirale e con un continuo "riciclaggio" delle competenze acquisite in precedenza. Questo naturalmente implica porsi in un'ottica diagnostica, in un'ottica di valutazione formativa, in cui strategie, convinzioni e atteggiamenti non sono definiti e strutturati una volta per tutte, ma vengono man mano sottoposti a monitoraggio e revisione per adattarli continuamente allo sviluppo cognitivo e linguistico degli studenti.
3. Prevedere l'imprevedibile? Questi sono dunque cinque possibili criteri per un curricolo del saper apprendere. Dopo aver parlato tanto della necessità di definire obiettivi e contenuti, vorrei ricordare che un curricolo, ogni curricolo, ma in particolare un curricolo centrato sui processi come quello per il saper apprendere, è solo un punto di partenza, non di arrivo. E' come una mappa di un territorio: può aiutare a non perdersi, ma non può sostituirsi all'esperienza concreta del vivere quel territorio. In altre parole, un curricolo di processi è il tentativo di prevedere, descrivere, organizzare qualcosa che per tanti versi non è prevedibile, né descrivibile, né organizzabile. Troppi elementi sono in gioco, troppe sono le possibili relazioni tra questi elementi, troppa la complessità globale del sistema perché possiamo abbandonarci alla struttura rassicurante di un curricolo. La teoria del caos, o della complessità, ci ricorda l'ormai famoso "effetto farfalla", citato persino in Jurassic Park: una farfalla che sbatte le ali a Pechino può influenzare il clima di New York (Crichton 1991: 76; vedi anche Larsen-Freeman 1997)(9). Dunque un curricolo può darci qualche certezza, ma non può farci dimenticare la necessità di saper tollerare l'ambiguità e l'incertezza. Nello stesso tempo, però, l'incertezza dei grandi sistemi ci ricorda il valore delle piccole cose, dei gesti quotidiani che, se rivisti fuori dalla "routine", possono avere una carica quasi rivoluzionaria. In un sistema dove ogni piccolo evento può condizionare i processi globali, una discussione in classe, un piccolo questionario, un'attività di riflessione, un'esperienza di lavoro di gruppo, possono introdurre un elemento di sana "turbativa" e magari dare l'avvio a cambiamenti piccoli ma che si sviluppano nel tempo. Qualche slogan sentito in giro negli ultimi anni ha forse colto lo spirito di questa cultura dei "piccoli passi":
"Think small" "Think globally, act locally"
"Pensa in piccolo", ma anche "Pensa su scala globale, agisci su scala locale" e una vecchia poesia popolare (citata da van Lier 1996: 86) ribadisce il valore del "piccolo":
For want of a nail The shoe was lost; For want of a shoe The horse was lost; For want of a horse The rider was lost; For want of a rider The battle was lost; For want of a battle The kingdom was lost; And all for the want of a horse-shoe nail.
Per mancanza di un chiodo Si perse il ferro di cavallo; Per mancanza di un ferro Si perse il cavallo; Per mancanza di un cavallo Si perse il cavaliere; Per mancanza di un cavaliere Fu persa la battaglia; Per mancanza di una battaglia Fu perso il regno; E tutto per la mancanza di un chiodo per ferro di cavallo.
4. Conclusione: nuovi ruoli per il saper insegnare Vorrei accennare, in conclusione, ai cambiamenti che un curricolo per il saper apprendere può comportare per il nostro saper insegnare, cioè, secondo il modello che abbiamo fin qui usato, per i nostri sapere, saper fare, saper essere come insegnanti. In primo luogo, la flessibilità ci suggerisce che debba tramontare il nostro ruolo di semplici trasmettitori di contenuti, ma ancor più di procedure, prefissati una volta per tutte. Nello stesso tempo, però, si evidenzia ancora di più il nostro ruolo come esperti-consulenti-mediatori di procedure di apprendimento, che siamo invitati a proporre e negoziare con i nostri studenti, in modo che a tutti venga offerta la possibilità di conoscere tante opzioni per poter imparare a scegliere, e dunque a costruirsi il proprio personale saper apprendere (10). In secondo luogo, l'integrazione ci propone una visione del nostro lavoro, prima ancora che del lavoro dello studente, come sviluppo globale di persone-educatori: persone che cambiano nel tempo anche grazie alle strategie, alle convinzioni e agli atteggiamenti di cui sanno diventare consapevoli. In terzo luogo, l'operatività ci induce a sottolineare, ancor più che in passato, il nostro ruolo di osservatori attenti, di noi stessi, dei nostri studenti, e dei compiti di apprendimento, cioè dei materiali, delle attività, delle situazioni che mettiamo in atto giorno per giorno. Osservare in questo senso vuol dire, come abbiamo visto, rendere più esplicito e trasparente, attraverso la riflessione, il significato delle esperienze che facciamo e che facciamo fare. Cosa ci suggerisce la trasferibilità? Forse, innanzitutto, un nuovo risvolto professionale di cui oso inventare il nome: "connettore trasversale" - connettore di conoscenze e di competenze, per far ritrovare il filo conduttore delle proprie esperienze a scuola sia ai propri studenti, sia ai propri colleghi. Forse dovremmo fare come l'iceberg che affondò il Titanic: delicatamente, quasi senza farsi vedere, ma nello stesso tempo con forza, rompere le paratie stagne tra le discipline. E, infine, la ricorsività ci ricorda come il nostro lavoro di "riciclaggio" acquisti il suo vero senso nell'ottica della continuità, e dunque, non solo in orizzontale, attraverso le paratie parallele del Titanic, ma anche in verticale, attraverso le classi e i livelli che dalle stive ci portano al ponte di comando. Ricorsività significa però anche lavorare in un approccio a spirale, e perciò avere un occhio clinico, per saper diagnosticare e monitorare i continui cambiamenti. E allora potremmo definirci, se mi si permette un'espressione forse un po' confusa, degli "sperimentatori clinici continui". La ricchezza e la complessità di questi ruoli, in un certo senso a noi familiari, per altri versi invece magari intriganti e disorientanti, ci può lasciare perplessi. Da una parte sentiamo l'esigenza e l'urgenza del cambiamento, dall'altra parte capiamo che questo cambiamento è innanzitutto dentro di noi e nei rapporti con le persone, dunque è un cambiamento che richiede i suoi tempi, che non può essere forzato più di tanto. E allora vorrei ricordare ciò che diceva Talleyrand: "Doucement, je suis pressé", citato in de Vecchi (1992: 221), che aggiunge: "Cambiare non significa gettare via tutto e sostituirlo con tutt'altro. Ci si può evolvere cominciando col riorganizzare in maniera diversa ciò che esiste già nella propria testa ..." "Ciò che esiste già nella propria testa ..." - non andare in posti nuovi, ma avere altri occhi, come diceva Proust. E come scrisse T.S.Eliot (Four Quartets):
We shall not cease from exploration And the end of all our exploring Will be to arrive where we started And know the place for the first time.
Non cesseremo di esplorare E la fine di tutte le nostre esplorazioni Sarà di arrivare dove siamo partiti E conoscere quel luogo per la prima volta.
Note (1) Holec (1996: 95-98) insiste sull'importanza delle convinzioni e degli atteggiamenti in un programma di preparazione degli studenti all'autonomia, e identifica nell'analisi delle rappresentazioni mentali degli studenti riguardo alla lingua, alla cultura e all'apprendimento la fase più delicata dell'intero processo. (2) Wenden (1991:52) chiarisce che gli atteggiamenti hanno una componente cognitiva (convinzioni, percezioni, informazioni sull'oggetto dell'atteggiamento), una componente valutativa (l'oggetto in questione può evocare piacere o dispiacere, accordo o disaccordo, approvazione o disapprovazione) e una componente di comportamento (in quanto predispongono la persona ad agire in un certo modo). Tra i fattori che condizionano un apprendimento di tipo autonomo, Sheerin (1997: 57) elenca sia la predisposizione a che l'abilità di: 1) analizzare i propri punti di forza e di debolezza e i propri bisogni linguistici; 2) porsi obiettivi realizzabili, sia generali che specifici; 3) stendere un programma di lavoro per raggiungere gli obiettivi stabiliti; 4) compiere scelte riguardo ai materiali e alle attività; 5) lavorare senza supervisione; 6) valutare i propri progressi. (3) Il Quadro comune di riferimento indica inoltre che "il saper apprendere deve anche essere inteso come sapere/essere disposto a scoprire l'altro, che si tratti di un'altra lingua, un'altra cultura, altre persone, nuove conoscenze" (Common European Framework/Cadre Européen Commun: 12). (4) Nel considerare i fattori di carattere più strettamente personale entrano in gioco delicati problemi di natura etica e pedagogica, che il Quadro comune di riferimento esemplifica come segue: "in che misura lo sviluppo della personalità può essere un obiettivo educativo esplicito; come conciliare il relativismo culturale con l'integrità morale ed etica; quali tratti della personalità a) facilitano b) ostacolano l'apprendimento e l'acquisizione di una lingua straniera o seconda; come aiutare i discenti a sfruttare le loro forze e a superare le loro debolezze; come conciliare la diversità delle personalità con le limitazioni che subiscono e che impongono i sistemi educativi" (Common European Framework/Cadre Européen Commun: 48; sulle differenze individuali nell'uso delle strategie cfr. anche pp. 77-78). (5) Waystage 1990 focalizza questo aspetto relativamente alle strategie di compensazione: "Per alcuni l'abilità di far fronte [a richieste comunicative impreviste] è connaturata. In qualche modo essi ce la fanno, per quanto carenti siano nell'abilità o nella conoscenza delle forme "appropriate" della comunicazione. La maggior parte delle persone, tuttavia, trarranno grande beneficio dal ricevere, nel corso del loro processo di apprendimento, ampie opportunità di sviluppare le loro abilità a questo riguardo. Non si tratta sostanzialmente di "insegnare" loro come fare a farcela, ma di condurli a sviluppare le proprie strategie. Anche se certe strategie e tecniche possono quasi certamente essere utili a chiunque, occorre lasciare il più ampio spazio alle differenze individuali corrispondenti a differenze di personalità" (van Ek e Trim 1991a: 64). Per lo stesso problema visto nell'ottica delle differenze culturali, si veda Pennycook (1997: 35). (6) Questo rimanda alla questione del rapporto tra il curricolo del "saper apprendere" e i curricoli disciplinari, con particolare riferimento al livello di integrazione reciproca: Holec (1996: 98-100 e 105-107), ad esempio, discute vantaggi e svantaggi del fornire una formazione al "saper apprendere" indipendente dal curricolo disciplinare, integrata con questo o mista. Si veda anche Mariani 1992b. (7) Questo è anche il ruolo riconosciuto alla metacognizione. Doly (1997: 24-25), ad esempio, ricorda che "occorre che il soggetto operi delle esperienze metacognitive … per permettere un controllo sulla sua attività in modo tale che possa comprendere ed esplicitare i rapporti tra le procedure utilizzate, lo scopo prefissato e la prestazione realizzata … Occorre anche … che il soggetto operi una "rielaborazione del contenuto delle sue esperienze metacognitive ad un livello concettuale astratto" … una rielaborazione esplicitabile, decontestualizzata e operata dal soggetto, che deve così passare da un livello descrittivo e cronologico delle sue procedure ad un livello esplicativo, logico e riformulato in termini generalizzabili …". (8) Sul ruolo della metacognizione il Quadro comune di riferimento non sembra compiere scelte particolari, ma si limita ad elencare le possibili opzioni a disposizione: "Le attitudini dei discenti allo studio e alla scoperta e la loro accettazione della responsabilità che essi hanno del loro proprio apprendimento possono essere sviluppati: "a) semplicemente come un sotto-prodotto dell'insegnamento e dell'apprendimento delle lingue, senza altre pianificazioni o disposizioni, oppure b) tramite il progressivo trasferimento della responsabilità dell'apprendimento dall'insegnante all'allievo/studente e l'incoraggiamento della riflessione, oppure c) per mezzo di un lavoro sistematico sulla presa di coscienza da parte del discente del processo di insegnamento/apprendimento del quale egli è parte in causa, oppure d) invitando i discenti a partecipare alla sperimentazione di approcci metodologici diversi" ((Common European Framework/Cadre Européen commun: 113-114). Ancora più espliciti sono Waystage 1990 e Threshold Level 1990: nello specificare gli obiettivi dell'"imparare a imparare", entrambi i documenti sembrano anzi mettere un po' in ombra il ruolo della metacognizione e considerarla come un accessorio non indispensabile: "Parecchi degli [obiettivi dell'"imparare a imparare"] sono formulati come "i discenti sono consapevoli di ...". Ciò permette ovviamente diversi gradi di consapevolezza, e non implica alcun tentativo di rendere operativo questo concetto. Questo significa semplicemente che, a nostro avviso, i corsi destinati a portare al livello Waystage/Threshold dovrebbero fornire ai discenti l'opportunità di sviluppare la relativa consapevolezza senza, tuttavia, esigere niente di specifico dai discenti a questo riguardo" (van Ek e Trim 1991a: 71; van Ek e Trim 1991b: 117). (9) E tuttavia, come nota Richterich (1996: 49), una delle funzioni essenziali delle strategie, paradossalmente, è di fornire strumenti per affrontare l'imprevedibile, ossia qualsiasi evento che modifichi lo spazio e il tempo, i contenuti, l'insegnante e lo studente, e le relazioni tra tutti questi elementi. Agire strategicamente, in altre parole, è anche saper improvvisare e immaginare per rispondere in modo adeguato alle continue sfide del cambiamento. (10) Sul ruolo degli insegnanti nei confronti delle strategie di apprendimento, cfr. Williams e Burden (1997: 165) e Westhoff (1993: 47); sui ruoli dell'insegnante che voglia favorire l'autonomia, cfr. Breen e Mann (1997: 145-148), Voller (1997: 102-106) e Holec (1996: 92-93).
Bibliografia --- Common European Framework of Reference for Language Learning and Teaching/Cadre Européen Commun de Référence pour l'Apprentissage et l'Enseignement des Langues. Strasbourg, Council of Europe Press. AA.VV. Learner Autonomy Series. Dublin, Authentik. BENSON, P., VOLLER, P. (eds.) 1997. Autonomy and Independence in Language Learning. Harlow, Longman. BERBAUM J. 1991. Développer la Capacité d'Apprendre. Paris, ESF. BREEN M.P., MANN S.J. 1997. "Shooting Arrows at the Sun: Perspectives on a Pedagogy for Autonomy" in Benson, P., Voller, P. 1997. CRICHTON M. 1991. Jurassic Park. London, Arrow Books. DOLY A.M. 1997. "Métacognition et Médiation à l'Ecole" in Grangeat M. (coordonné par) 1997. van EK, J.A., TRIM, J.L.M. 1991. Threshold Level 1990, Capitoli 12/13. Strasbourg, Council of Europe Press. van EK, J.A., TRIM, J.L.M. 1991. Waystage 1990, Capitoli 10/11. Strasbourg, Council of Europe Press. GRANGEAT M. (coordonné par) 1997. La Métacognition, une Aide au Travail des Elèves. Paris, ESF. HILL D.A. (ed.) 1992. The State of the Art. London, Modern English Publications with The British Council. HOLEC, H. 1996. "Self-directed Learning: An Alternative Form of Training" in Holec et al. 1996. HOLEC, H., HUTTUNEN, I. (eds.) 1997. L'Autonomie de l'Apprenant en Langues Vivantes. Recherche et Développement/Learner Autonomy in Modern Languages. Research and Development. Strasbourg, Council of Europe Press. HOLEC, H., LITTLE, D., RICHTERICH, R. 1996. Strategies in Language Learning and Use. Strasbourg, Council of Europe Press. HUTTUNEN I. 1993. Report on Workshop 2B. Strasbourg, Council of Europe Press. LARSEN FREEMAN D. 1997. "Chaos/Complexity Science and Second Language Acquisition", Applied Linguistics, 18,2. van LIER, L. 1996. Interaction in the Language Curriculum: Awareness, Autonomy & Authenticity. Harlow, Longman. MARIANI, L. 1992a. "Language Awareness/Learning Awareness in a Communicative Approach. A Key to Learner Independence", Perspectives, vol. XVIII, n. 2. MARIANI L. 1992b. "Learner Training. Integrating Language and Learning Strategies" in Hill D.A. (ed.) 1992. MARIANI L. 1996. "Stili di Apprendimento e Strategie di Apprendimento e Insegnamento" in Moro M.G., Pellicioli P. (a cura di) 1996. MC COMBS B.L. 1988. "Motivational Skills Training: Combining Metacognitive, Cognitive and Affective Learning Strategies" in Weinstein C.E., Goetz, E.T., Alexander P.A. 1988. MEIRIEU, P. 1987. Apprendre …oui. Paris, E.S.F. (Trad. ital. 1990: Imparare …ma come? Bologna, Cappelli). MORO M.G., PELLICIOLI P. (a cura di) 1996. Fare e Valutare la Formazione. Atti del Seminario per Formatori del Progetto Speciale Lingue Straniere. Mestre, IRRSAE del Veneto/Ministero della Pubblica Istruzione - Ufficio Studi e Programmazione. PENNYCOOK A. 1997. "Cultural Alternatives and Autonomy" in Benson, P., Voller, P. 1997. RICHTERICH R. 1996. "Strategic Competence: Acquiring Learning and Communication Strategies" in Holec et al. 1996. SHEERIN S. 1997. "An Exploration of the Relationship Between Self-access and Independent Learning" in Benson, P., Voller, P. 1997. de VECCHI G. 1992. Aider les Eleves à Apprendre. Paris, Hachette. VOLLER P. 1997. "Does the Teacher Have a Role in Autonomous Language Learning?" in Benson, P., Voller, P. 1997. WEINSTEIN C.E., GOETZ, E.T., ALEXANDER P.A. 1988. Learning and Study Strategies. Issues in Assessment, Instruction, and Evaluation. San Diego & London, Academic Press. WESTHOFF G. 1993. "Learning Strategies and Learner Autonomy" in Huttunen I. (ed.) 1993. WENDEN 1991. Learner Strategies for Learner Autonomy. Hemel Hempstead, Prentice Hall. WILLIAMS M., BURDEN R. L. 1997. Psychology for Language Teachers. A Social Constructivist Approach. Cambridge, University Press.
Appendice Bozza di una possibile griglia di obiettivi di un curricolo per il "saper apprendere" Sono qui di seguito proposti alcuni repertori che possono risultare utili per la definizione di un curricolo per il "saper apprendere". Il carattere di questi repertori è esclusivamente descrittivo, ed il loro uso è limitato al riferimento ed alla consultazione: non rappresentano né un elenco chiuso ed esaustivo, né un insieme di contenuti prescrittivi. Un curricolo per il "saper apprendere", infatti, ha senso solo se costituisce uno strumento, per l'insegnante e per lo studente, per scoprire gradualmente il proprio modo, unico perché personale, di imparare. Entro i limiti appena citati, i repertori possono costituire un utile strumento di esplicitazione e descrizione di obiettivi: un punto di partenza per un confronto più "trasparente" tra insegnanti e con gli studenti per negoziare percorsi, individuali e di classe, che rafforzino il senso di continuità dell'"imparare a imparare", sia in senso orizzontale (attraverso le discipline) che in senso verticale (attraverso i cicli di istruzione).
STRATEGIE DI ELABORAZIONE DELLE INFORMAZIONI (Strategie cognitive)
|
Home Presentazione Autoformazione Collegamenti Pubblicazioni Rilassati ... con stile
www.learningpaths.org
luciano.mariani@iol.it