LA MOTIVAZIONE NEGLI
APPRENDIMENTI LINGUISTICI:
APPROCCI TEORICI E
IMPLICAZIONI PEDAGOGICHE
Italiano LinguaDue, n. 1, 2012, pp. 1-19 http://riviste.unimi.it/index.php/promoitals/article/download/2267/2497
Luciano Mariani
E’ opinione diffusa tra insegnanti,
genitori, studenti e, più in generale, tra chi si occupa a vario titolo di
questioni educative, che la motivazione sia una condizione essenziale per
qualsiasi tipo di apprendimento. Molto spesso questa opinione tende a generare
circoli viziosi, come quando si afferma che si è motivati perché si ha
successo, e, contemporaneamente, che si ha successo perché si è motivati, in
un’alternanza sottile ma ambigua di causa ed effetto. Soprattutto, però, il
fattore “motivazione“ viene caricato di valori, aspettative, ambizioni tali da
farlo percepire come la
condizione-chiave, la più importante se non l’unica, per la riuscita del
processo di apprendimento. La presenza o l’assenza di motivazione, in altre
parole, viene considerata spesso, in modo esplicito o implicito, come una variabile indipendente di questo
processo, con il frequente corollario di trasformarla in una pesante ipoteca
che grava sugli interventi pedagogici e didattici.
Lo
scopo principale di questo contributo è di ridefinire il concetto di
motivazione come costrutto multidimensionale, dinamico e socialmente costruito,
in modo da considerarlo come fattore cruciale ma strettamente integrato ai
contesti di apprendimento/insegnamento, e, come tale, suscettibile di essere
visto come una competenza che è possibile costruire e sviluppare lungo tutto il
percorso formativo.
L’illustrazione di alcuni fondamentali apporti teorici sarà accompagnata dalla citazione di affermazioni e di metafore di studenti, raccolte nel corso di alcuni sondaggi sulla motivazione e sulle convinzioni e gli atteggiamenti nei confronti dell’apprendimento delle lingue a scuola [1].
1. INTRODUZIONE: IL RUOLO DELLA
MOTIVAZIONE NELL’APPRENDIMENTO
Non c’è dubbio che le teorie
dell’apprendimento linguistico rinforzano, dal canto loro, una visione della
motivazione come elemento essenziale anche se non sufficiente:
“Data la motivazione, è inevitabile che un essere umano impari una seconda
lingua a condizione che sia esposto ai dati linguistici” (Corder
1981: 1)
“Gli elementi che definiscono il processo di apprendimento/insegnamento
sono i seguenti: 1) esposizione … alla lingua oggetto di studio; 2) opportunità
di uso linguistico; 3) motivazione a rispondere alle due condizioni precedenti”
(Brumfit, citato in Ciliberti
1994: 19)
“Nella misura in cui l’istruzione nella Lx è
efficace nel promuovere la competenza nella Lx, il
trasferimento di questa competenza alla Ly avverrà a
condizione che ci sia un’adeguata esposizione alla Ly
(a scuola o nell’ambiente) e un’adeguata motivazione ad imparare Ly” (Cummins 2005: 4)
“Senza una sufficiente motivazione, anche gli individui con le più notevoli
abilità non possono raggiungere scopi a lungo termine, e nemmeno dei curricoli
adeguati e un buon insegnamento sono sufficienti di per sé ad assicurare il
successo dello studente. D’altro canto, una motivazione alta può compensare
mancanze considerevoli sia nella propria attitudine linguistica che nelle
condizioni di apprendimento” (Dörnyei 2005: 65)
Questo
tipo di affermazioni, anche se estrapolate dal loro contesto originale, e sia
pur temperate dalla contemporanea citazione di altri elementi cruciali per il
processo di apprendimento, potrebbero contribuire a rafforzare alcuni
pre-concetti sulla motivazione ancora fortemente presenti nelle convinzioni e
negli atteggiamenti degli “addetti ai lavori” come dell’opinione pubblica:
l’idea, ad esempio, che la motivazione sia un “dono di natura”, cioè un dato
geneticamente determinato al pari dell’attitudine linguistica, o il risultato
di circostanze fortuite, o l’effetto di condizioni ambientali favorevoli o
sfavorevoli, ma in ogni caso un fattore associato a determinismi biologici,
psicologici o socioculturali di tipo scarsamente verificabile e controllabile.
Tuttavia,
la ricerca sulla motivazione, come vedremo, ha da tempo sfatato queste false
credenze, proponendo una visione articolata dei fattori motivazionali in quanto
processi identificabili e descrivibili nelle loro manifestazioni come nelle
loro cause e nelle loro conseguenze, e almeno in parte controllabili e
modificabili attraverso interventi pedagogico-didattici
sistematici ed espliciti.
2. LA MOTIVAZIONE COME COSTRUTTO
MULTIDIMENSIONALE
Per
apprezzare e condividere fino in fondo questi atteggiamenti alternativi è però
necessario un cambiamento di paradigma, che consideri la motivazione come un
sistema complesso e multidimensionale costituito da una rete integrata di
rapporti tra, da una parte, un insieme di costrutti personali, cognitivi e
affettivi, che gli individui elaborano nelle interazioni sociali, e, dall’altra
parte, i contesti immediati e più generali in cui gli individui stessi si
trovano ad agire. In tal modo si possono superare gli sterili determinismi che
abbiamo appena citato e cominciare a considerare la motivazione come
l’integrazione di dimensioni psicologiche (relative ai singoli individui) e di
dimensioni socioculturali (relative ai gruppi, alle comunità e alle società di
cui gli individui fanno parte).
Il
carattere “situato”, quindi socialmente e culturalmente connotato, della
motivazione ad apprendere appare evidente non appena si sollecitino gli
studenti a riflettere su che cosa li spinga ad impegnarsi nel lavoro
scolastico:
(1)
Un’esperienza particolare e positiva posso dire di viverla attualmente in
questa classe grazie ai compagni e al rendimento scolastico. In particolar modo
i compagni perché è grazie a loro che ogni mattina trovo la carica e la
motivazione per alzarmi dal letto e venire a scuola, dove ogni giorno è una
festa insieme a loro. (Barbara, 17)[2]
(2)
Bisogna lavorare in un buon ambiente, instaurare rapporti con gli insegnanti e
essere sostenuto e spronato in famiglia. (Mario,
17)
(3)
Quello che mi spinge a studiare è … soprattutto il fatto che osservando il
mondo del lavoro al giorno d’oggi, lo vedo duro e faticoso e lontano da me. Per
questo cerco di studiare al meglio per ottenere buoni risultati e chissà mai
una buona posizione nella vita futura. Lo studio mi apre a prospettive
migliori. (Francesco, 17)
Dalle
parole degli studenti emerge con chiarezza il ruolo che svolgono i contesti, e
in primo luogo il gruppo-classe, nel soddisfare bisogni personali profondi,
come in (1): la classe è, dal punto di vista dei suoi componenti, una vera
“arena sociale” dove hanno luogo processi di sviluppo e maturazione che si
traducono, ad esempio, nella formazione di amicizie, nel consolidamento di
rapporti affettivi, nella sperimentazione ed elaborazione di modelli di
identità personale. Non a caso, è compito della scuola incanalare gli scopi socio-affettivi, che costituiscono
un fattore primario del “senso” che gli studenti attribuiscono al lavoro
scolastico, in scopi accademici e
formativi, ad esempio attraverso modalità di lavoro cooperativo che
accrescano la percezione di appartenza al
gruppo-classe in quanto comunità di apprendimento.
Il ruolo
cruciale dell’ambiente è sottolineato anche in (2), dove però la prospettiva si
allarga dalla classe (con la figura centrale dell’insegnante) alla famiglia, e
in (3), dove la realtà extrascolastica irrompe quasi con violenza nel mondo un
po’ ovattato della classe. Con la crisi della centralità della scuola come
ambiente formativo esclusivo, anche sulle dinamiche del gruppo-classe vengono a
pesare più che in passato i condizionamenti esterni delle comunità e delle
società più o meno ”globalizzate”, con riflessi importanti, come vedremo più
avanti, per la stessa identità linguistica di chi apprende ed usa le lingue.
L’interazione costante e bidirezionale tra la classe, la scuola e le
realtà socioculturali di riferimento è schematicamente illustrata nella Fig. 1
(adattata da Mariani 2006: 23), in cui però, ai fini del nostro discorso,
assume particolare rilevanza il triangolo costituito dall’insegnante, dal
gruppo-classe e dai compiti di apprendimento. All’interno di questo triangolo
si gioca in larga misura l’esito del processo di apprendimento/insegnamento,
attraverso le relazioni tra le persone (tra insegnanti e studenti e tra
studenti fra loro) e attraverso le relazioni di mediazione e facilitazione che
l’insegnante attua, tramite la gestione dei compiti di apprendimento, tra gli
studenti e i contenuti disciplinari.
Fig.
1 – Il contesto dei processi di apprendimento-insegnamento
L’interfaccia tra i processi motivazionali
degli individui e l’impatto dei contesti e degli ambienti formativi è
costituito dalle convinzioni e dagli atteggiamenti che gli attori di questi
processi elaborano a partire dalle loro esperienze con i contesti stessi. In
particolare, gli studenti (e naturalmente anche gli insegnanti) costruiscono e
ri-costruiscono continuamente, in modo dinamico, le loro percezioni
·
nei confronti
degli oggetti di studio (nel nostro caso, le lingue e le relative culture);
·
nei
confronti di se stessi in quanto apprendenti, e in particolare della propria
capacità e volontà di imparare;
·
nei
confronti dei processi di apprendimento, cioè delle modalità attraverso cui
passa la costruzione della conoscenza e lo sviluppo delle competenze, con
particolare riferimento ai compiti che vengono quotidianamente proposti in
classe.
Convinzioni (rappresentazioni cognitive) e atteggiamenti
(relativi correlati affettivi) possono costituire dei costrutti particolarmente
utili per esplorare i processi motivazionali. Le tre aree di convinzioni e
atteggiamenti appena elencate costituiranno così il filo conduttore delle tre
parti principali in cui si articola questo contributo: motivazione, lingue e
culture (par. 3); motivazione e percezioni di sé (par. 4); motivazione e
compiti di apprendimento (par. 5). Concluderemo con una sintesi delle strategie che insegnante e studente
possono attivare, ciascuno nel proprio ruolo ma anche nella prospettiva di
interdipendenza già illustrata, per generare e mantenere la motivazione ad
apprendere (par. 6).
3. MOTIVAZIONE, LINGUE E CULTURE
3.1 Orientamento
integrativo e orientamento strumentale
Sin dalle prime concettualizzazioni
teoriche è stato affermato con forza che l’apprendimento di una lingua non può
essere considerato alla stregua dell’apprendimento di qualsiasi altra materia
scolastica, per l’impatto che le lingue hanno sugli atteggiamenti e sul senso
di identità personale, e per la stretta relazione con fattori socioculturali
che condizionano i rapporti tra usi linguistici e culture di riferimento. Questa
posizione ha portato subito ad una concettualizzazione della motivazione
linguistica particolare, che si è per lungo tempo tenuta distinta dai modelli
di stampo più generalmente psico-pedagogico. Il modello socio-educativo di Gardner
e Lambert (1972), aggiornato a più riprese (Gardner 1985, Gardner 2001), ad
esempio, ha contribuito moltissimo a rendere popolari due classi di variabili
che influenzano la motivazione linguistica:
Questa distinzione è tuttora riscontrabile
nelle convinzioni e negli atteggiamenti di chi apprende e usa le lingue, come
dimostrano le seguenti affermazioni di studenti, che sembrano riferirsi
abbastanza chiaramente all’orientamento integrativo (4-6) piuttosto che a
quello strumentale (7-10):
(4) riuscire a
diventare “straniera” ed essere considerata tale (Daniele, 15)
(5) sentirsi a casa ovunque si vada, nel posto dove si
parla; come sentirsi un vero inglese, tedesco, francese, ecc. (Simone, 17)
(6) entrare nella
logica e mentalità prima del popolo che la parla e poi della lingua stessa (Elena, 18)
(7) impegnarsi per non
essere bocciato (Aldo, 15)
(8) fare qualcosa di utile, perché una lingua straniera
si può usare, si può parlare, non come per esempio matematica che non mi serve
tanto quando ho il tempo libero
(Gabriella, 17)
(9) qualcosa di nuovo che si può usare in ogni momento, il passaporto
immaginario per viaggiare (Giuliana, 15)
(10) fare un investimento a lungo termine (Pino, 15)
Tuttavia, questa
distinzione apparentemente così netta tra orientamento integrativo e
orientamento strumentale ha perso via via molto della
sua valenza. In primo luogo, si è riconosciuto che le persone possono essere
motivate da più fattori anche molto diversi tra loro, per cui, ad esempio, il
desiderio di adattarsi o addirittura di integrarsi in una diversa comunità non
appare necessariamente in contraddizione con il desiderio di impararne la
lingua anche per scopi strumentali (ripeteremo questa considerazione più
avanti, trattando della motivazione intrinseca/estrinseca). In secondo luogo,
il concetto di “orientamento integrativo” (che, occorre ricordarlo, fu
introdotto da Gardner e collaboratori nel contesto di studi effettuati in
ambiente bilingue canadese) assume significati diversi se rapportato a contesti
di apprendimento di una lingua seconda piuttosto che di una lingua straniera:
in quest’ultimo caso la lingua viene spesso appresa a scuola, insieme alle
altre discipline, e i contatti diretti con i parlanti nativi sono assenti o
ridotti al minimo. Inoltre, nel caso di lingue “globali” come l’inglese, non è
più identificabile con chiarezza una comunità culturale di riferimento, con
riflessi evidenti sulla possibilità stessa di integrarsi in una comunità ben
determinata (Dörnyei 2010).
Inoltre, la
diversificazione e la globalizzazione degli apprendimenti linguistici sta
cambiando in modo decisivo il ruolo e lo status
delle lingue e dei loro parlanti. La disponibilità ad imparare una lingua è
sempre più caratterizzata dall’influenza di contesti educativi e di
divertimento (edutainment)
che vanno dagli amici ai colleghi di studio o di lavoro, dai media tradizionali
ai messaggi veicolati su Internet nei social
networks. Su un altro versante, tenendo conto dei
flussi migratori e dei conseguenti contatti interculturali, l’integrazione in
una comunità “straniera” attraverso l’apprendimento della sua lingua può
comportare una paura di assimilazione
e di conseguente perdita della propria identità linguistica e culturale di
origine: si tratta di un processo che è stato chiamato “bilinguismo
sottrattivo” (Lambert 1978).
3.2 Verso una
diversa integrazione: questioni di identità
Un’ulteriore
conferma che gli apprendimenti linguistici sono diversi da apprendimenti di
altro tipo, in quanto implicano ben più dell’acquisizione di conoscenze e dello
sviluppo di abilità, è fornita dall’impatto che una nuova lingua e una nuova
cultura possono avere sul proprio modo di percepirsi, cioè sul proprio senso di
identità personale:
(11) diventare un’altra persona, cambiare
quasi personalità e modo di essere (Grazia,
17)
(12) essere due persone contemporaneamente
(Cesare, 19)
(13) recitare,
giocare a vari ruoli, come calarmi in un personaggio, modificando la voce e il
modo di pensare (penso come un tedesco, un francese, un inglese) (Silvana, 16)
Sono qui
evidenti la natura e i diversi livelli delle implicazioni affettive che può
comportare un orientamento di tipo integrativo: le conseguenze sul proprio
senso di identità personale possono limitarsi ad un livello più superficiale ma
non per questo meno significativo, come nel recitare un ruolo in (13), ma
possono anche estendersi ad una sensazione più profonda di impatto sulla
propria personalità, come in (11) o addirittura alla percezione di uno
sdoppiamento, come in (12).
Come si è detto poco sopra, tuttavia, si va facendo strada, proprio a cominciare dalle generazioni più giovani, un diverso senso di integrazione, che non sembra più fare riferimento soltanto, o soprattutto, ad una specifica cultura, ma pare comportare un investimento affettivo in una comunità culturale più ampia, generale e globale:
(14) appartenere a un gruppo di
persone che comunicano con la stessa lingua (Giovanni,
15)
(15) un passaporto, una chiave per
poter interagire con altre persone (Ernesto,
15)
(16) avere
delle certezze in più, nel senso di poter riuscire ad esprimermi e comunicare
con persone di lingua e cultura diversa (Stella,
17)
(17)
adeguarsi in qualche modo al modo di comunicare di altre persone, rendersi
rispettosi della loro cultura favorendo indirettamente mediazioni culturali (Dora, 18)
In tutte
queste affermazioni, il desiderio di comunicare e interagire con “altri” e
“diversi” non ha più connotazioni nazionali, né si identifica con l’uso di una determinata
lingua o con l’incontro con una specifica cultura. Sembra emergere invece la
consapevolezza che, attraverso le lingue, si possa non soltanto interagire, ma
entrare a far parte di una comunità più generalizzata e globalizzata,
caratterizzata proprio dall’uso di strumenti di comunicazione condivisi, come
in (14), e arrivando fino a giocare un ruolo di mediazione culturale, come in
(17). Le lingue globali, internazionali, “franche” (in primo luogo, ovviamente,
l’inglese), tendono a non identificarsi più con specifiche culture, ma tendono
piuttosto ad appartenere, pragmaticamente, a chi le usa, cioè ai parlanti,
spesso non nativi, che le utilizzano come strumento di comunicazione e ponte
tra lingue e culture diverse. In questo senso il desiderio di integrazione
tende a fare riferimento, più che a comunità culturali specifiche, a comunità
immaginate oltre che reali (Dörnyei e Ushioda
2010). Si conferma così, ancora una volta, la difficoltà di distinguere, oggi,
tra orientamento integrativo e orientamento strumentale:
“… gli
orientamenti integrativo e strumentale sono difficili da distinguere come
concetti separati. Incontrare occidentali [per degli orientali], usare
computer, capire canzoni pop, studiare e viaggiare all’estero, perseguire una
carriera desiderabile – tutte queste aspirazioni sono associate l’una con
l’altra e con l’inglese come parte integrante dei processi di globalizzazione
…” (Lamb 2004:15)
Proprio questa diversa concettualizzazione
dell’orientamento integrativo sta portando a nuove, interessanti formulazioni
teoriche[3], che
puntano sul concetto di identificazione,
psicologica ed emotiva, con una comunità reale o immaginata, come si è appena
visto. Questa nuova identità personale conseguente all’apprendimento e all’uso
di una L2 è stata definita da Dörnyei “il sé ideale
della L2” (ideal
L2 self), che sarebbe
“l’aspetto specifico alla L2 del proprio sé
ideale, o l’aspetto linguistico dell’identità e personalità globale
dell’individuo. Se la persona che vorremmo diventare parla una L2, il sé ideale della L2 è un potente fattore
motivante per imparare la L2 … più è positiva la nostra disposizione verso i
parlanti della L2, più attraente è il nostro sé idealizzato della L2” (Dörnyei 2010: 79)
4. MOTIVAZIONE E PERCEZIONI DI
SE’
4.1. L’autodeterminazione
e il continuum estrinseco-intrinseco
Un’altra impostazione teorica sulla motivazione che gode da molti anni
di una grande popolarità è la teoria dell’autodeterminazione
(Deci e Ryan 1985, Deci e
Ryan 2002), che include la ben nota distinzione tra motivazione estrinseca e motivazione intrinseca. Si tratta di un’impostazione
che per lungo tempo non si è coordinata con le teorie sulla motivazione
linguistica sin qui discusse, anche se più recentemente diversi ricercatori
hanno tentato di stabilire relazioni tra la distinzione estrinseco/intrinseco e la distinzione integrativo/strumentale (Noels et al. 2000, Noels 2001).
La
teoria dell’autodeterminazione postula che, poiché ogni comportamento (compresi
dunque gli apprendimenti linguistici) comporta sempre una combinazione di
fattori regolativi esterni ed interni, la motivazione può assumere varie forme
a seconda del grado di regolazione esterna o, a specchio, di autodeterminazione
implicato. Così è possibile ipotizzare un continuum
tra estrinseco e intrinseco che prevede ad un estremo la regolazione esterna, in cui si agisce per ottenere una ricompensa o
evitare una punizione, conformandosi alle richieste altrui (“cerco di
migliorare in francese altrimenti papà non mi compra il tablet”), per poi passare all’interiorizzazione di norme accettate per
ottenere l’approvazione di se stessi o di altri (“studio le lingue perché non
voglio fare brutta figura e per non dare un dispiacere ai miei genitori”), all’identificazione con un comportamento di
cui si percepisce il valore e/o l’utilità (“studio l’inglese per poter capire i
testi delle canzoni e per prepararmi all’università”), fino ad arrivare all’integrazione, cioè all’assimilazione con
i valori, i bisogni e l’identità più profonda dell’individuo (“studio le lingue
perché voglio allargare i miei orizzonti e potermi confrontare con altre
culture”).
Si
può comprendere, e i risultati delle ricerche lo confermano (Kimberly et al. 1999, Noels 2001), come l’orientamento integrativo sia correlato
con le forme più autodeterminate di motivazione, e ancora di più come
l’orientamento strumentale si associ alla regolazione esterna: in quest’ultimo
caso, entrambi i costrutti enfatizzano infatti il ruolo delle ricompense
esterne al processo di apprendimento.
Tuttavia, come abbiamo già notato per l’opposizione
integrativo/strumentale, anche le motivazioni estrinseche ed intrinseche
possono coesistere all’interno del profilo motivazionale di un individuo: in
altre parole, si può essere motivati da una varietà di fattori, che,
specialmente nell’età evolutiva, possono comportare il riferimento ad elementi
anche potenzialmente conflittuali, ma che l’individuo riesce in qualche modo ad
integrare in quello che può essere definito stile
motivazionale:
(18) La
mamma, la voglia di essere promossa, ricevere il cellulare, poter realizzare il
sogno di diventare veterinaria. (Serena,
13)
(19) La
soddisfazione di avere voti alti, conoscere cose che mi permettono di capire e
apprezzare le cose che mi circondano. Finché vado bene a scuola posso
impegnarmi anche in altre attività che mi piacciono (questo mi spinge ad
impegnarmi nello studio, in modo da studiare per il minor tempo possibile). (Enrico, 17)
(20) Sinceramente
studio e mi impegno di più quando so di avere uno scopo, per esempio andare in
vacanza con le amiche. Ma pensandoci bene poi penso anche al mio futuro come
sarà senza un titolo di studio. (Camilla,
15)
Tutti i tipi di orientamento motivazionale
sin qui considerati non includono, per definizione, quella che gli insegnanti e
gli educatori considerano spesso la più importante (se non l’indispensabile)
forma di motivazione: quella intrinseca,
che è associata al piacere di eseguire un’attività indipendentemente dai
vantaggi che può procurare o dalle pressioni esterne, e che risulta spesso da
una scelta consapevole e personale di attività. Si osservino le metafore con
cui questi studenti hanno cercato di concettualizzare l’apprendimento di una
lingua straniera:
(21) per
me imparare una lingua straniera è come un gioco tra amici, dove bisogna
metterci impegno, ma anche divertimento (Simona,
14)
(22) ascoltare una canzone (Giuliana, 15)
(23) suonare uno strumento, è divertente e lo si fa
con estremo piacere (Matteo, 15)
(24) giocare a calcio – assolutamente necessario (Maurizio, 17)
(25) risolvere un enigma (Luisa, 18)
Si
noti che la motivazione intrinseca è associata ad emozioni di piacere che non
si limitano al puro e semplice “divertimento”, ma che coprono una gamma di
sensazioni piuttosto estesa (Noels et al. 2000): dal coinvolgimento cognitivo, che deriva
dall’esplorare nuove idee, sviluppare conoscenze, risolvere problemi o
raggiungere un obiettivo, come in (25) alla soddisfazione di bisogni personali
profondi, come in (24), senza escludere il coinvolgimento della volizione, cioè
dell’impegno consapevole, come in (21). Quest’ultima osservazione, come
vedremo, ha un importante risvolto pedagogico, perché chiarisce come sforzo e
piacere (“divertimento”, come dice Simona) non sono necessariamente in contrapposizione
nell’esecuzione di un compito. Da un lato, quindi, è certamente giusto puntare
sull’attivazione di motivazioni intrinseche; dall’altro, però, non si deve
cadere nella trappola di considerare queste ultime come le uniche degne di
valore o le sole che garantiscono un apprendimento efficace, al punto da
screditare l’ampia gamma di motivazioni estrinseche che abbiamo esaminato.
Specialmente in contesti formativi formali, come sono quelli scolastici, e con
studenti in età evolutiva, esiste spesso un inevitabile elemento di
costrizione, e una delle chiavi per stimolare la disponibilità ad apprendere
consiste nel dare il giusto risalto ai già citati profili o stili
motivazionali, che sono unici e irripetibili per ogni individuo.
4.2. Le
attribuzioni causali
(26) Mi spinge il fatto di raggiungere buoni risultati in
tutte le materie. Questo mi dà un senso di piacere e mi rende contento perché è
una sfida che riesco tranquillamente a vincere. (Pierpaolo, 18)
Si
è visto come la motivazione intrinseca, ma anche, in misura minore e diversa, i
gradi più alti della motivazione estrinseca, comportino non solo sensazioni di
piacere, ma anche, come dice Pierpaolo, una sensazione di sfida positiva (al contempo cognitiva, affettiva e volitiva) che l’individuo
si percepisce in grado di affrontare e vincere. In effetti, la maturazione
verso più alti livelli di motivazione sull’asse estrinseco-intrinseco
comporta anche uno sviluppo delle percezioni di sé in termini di competenza (o autoefficacia: la percezione di essere
in grado di eseguire compiti e raggiungere obiettivi in determinati ambiti), di
autostima (un più generale senso di
valore del proprio sé) e di autonomia
(la percezione di poter compiere scelte e di sperimentare dunque livelli sempre
maggiori di autodeterminazione). Sono queste percezioni, e, più in generale, un’autovalutazione
positiva di sé e delle proprie capacità che permettono di costruirsi delle aspettative di successo, cioè di
prefigurarsi sin dall’inizio dei compiti di apprendimento l’esecuzione di
prestazioni positive e dunque uno sviluppo graduale della propria competenza
(la sensazione di “potercela fare”)[4].
Ma queste aspettative di successo sono condizionate da strutture
cognitive e affettive (convinzioni e atteggiamenti) relative alla percezione
delle cause dei propri successi e
fallimenti. Poiché gli esseri umani sono naturalmente portati a cercare
spiegazioni agli eventi che si producono, dentro e fuori di sé, anche i
risultati del propri tentativi di apprendere vengono sottoposti, sia pure
inconsapevolmente, a questo tipo di analisi. Si considerino le risposte fornite da alcuni
studenti quando si è loro chiesto di identificare
quali fattori a loro giudizio determinavano i loro successi e i loro fallimenti
a scuola e, al contempo, che cosa avrebbero dovuto fare o che cosa sarebbe
dovuto succedere perché potessero produrre risultati migliori:
(27) Un
miracolo. (Luca, 14 anni)
(28) Sicuramente
al primissimo posto c’è la “fortuna” di avere un buon insegnante! O ci sono
quelli incompetenti, o quelli che esercitano “tirannie”! Tutto dipende da come
è l’insegnante, l’ho notato dai miei risultati scolastici! (Patrizia, 17 anni)
(29) Un
giorno la professoressa era di buon umore e non ha tenuto conto di alcuni
errori nell’esposizione dell’argomento trattato. (Massimo, 16 anni)
(30) La
fortuna è un’illusione fallace, anche se incide sull’esito delle cose; occorre
ottimizzare la preparazione, i risultati vengono da soli, come i funghi. (Giancarlo, 16 anni)
(31) Alcune
verifiche sono basate soprattutto sulle capacità personali dove l’impegno nello
studio conta poco. (Marta, 17 anni)
(32) Intelligenza
e capacità personali influenzano il metodo di studio e l’interesse, perché una
persona, pur impegnandosi, ma non intelligente, non può ottenere buoni
risultati. (Tiziano, 16 anni)
Le attribuzioni
causali di questi studenti, cioè l’attribuzione delle cause dei loro
risultati positivi o negativi a una gamma diversificata di fattori, possono
essere classificate come nella Fig. 2.
Fig.
2 – La struttura delle attribuzioni causali
Da
una parte, queste attribuzioni possono essere esterne e instabili, come
quando ci si riferisce alla fortuna o comunque a fattori assolutamente incontrollabili[5],
come in (27), (28) e (29) (le caratteristiche degli insegnanti, citate in (28),
possono però essere ritenute un fattore di contesto relativamente stabile, anche se esterno e incontrollabile).
Da un’altra parte, le capacità o abilità personali, citate in (31) e (32),
costituiscono fattori interni
all’individuo e relativamente stabili,
nel senso che la maggior parte delle persone ritiene che sia difficile cambiare
la propria configurazione personale di capacità, di attitudini innate o di
“intelligenze”: si tratta dunque ancora una volta di elementi percepiti come incontrollabili (anche se
la ricerca pedagogica da tempo propende per una visione non così deterministica
e ipotizza spazi di intervento possibili e auspicabili[6]).
Infine, la valutazione dell’importanza dello sforzo e dell’impegno –
“ottimizzare la preparazione”, come in (30) – costituisce un’attribuzione ad un
fattore interno ma instabile, dunque controllabile (nel senso che sforzo e impegno possono essere
modificati dall’individuo, sottolineando così il ruolo cruciale della
volizione).
Le
attribuzioni causali costituiscono una componente importante delle aspettative di successo, cioè della
percezione delle probabilità che l’esecuzione di un compito di apprendimento si
concluda con successo. Se, ad esempio, si è convinti che per imparare bene una
lingua sia necessario possedere un’attitudine particolare, e se si crede nel
contempo di non possedere tale attitudine, si potrà sviluppare una percezione
di incontrollabilità del processo, con conseguente diminuzione del proprio
senso di autoefficacia. Se, al contrario, si è convinti che le proprie
capacità, sia pure ancorate ad una base genetica, possono essere migliorate o
affinate tramite lo sforzo e l’impegno consapevoli, allora il senso profondo
del proprio agire cambierà, in quanto ci si riterrà in grado di controllare
almeno in parte il percorso che si deve compiere. Certamente, da un punto di
vista pedagogico, è auspicabile sviluppare un atteggiamento del secondo tipo,
specialmente se accompagnato dalla convinzione che sforzo e impegno non sono
categorie soltanto “quantitative”, ma vengono qualificati dal ricorso
consapevole a strategie di apprendimento che possono essere pianificate,
monitorate e valutate: un’osservazione importante, come vedremo, ai fini della
gestione dei compiti di apprendimento.
Ciò che preme sottolineare ancora una volta è che anche le attribuzioni
causali (costrutti psicologici interni) si strutturano in base alle percezioni
che le persone costruiscono su se stesse in
relazione ai contesti in cui operano, ad esempio in base alle influenze
degli insegnanti, del clima di classe, dell’ethos
della scuola, e, non ultimo, delle differenze culturali che possono esistere
nei contesti di classe. Come si è già notato all’inizio di questo contributo, il
senso profondo dell’apprendimento, e
del lavoro necessario per realizzarlo, viene costruito giorno per giorno
attraverso le interazioni tra tutti gli attori del processo. Ad esempio, insegnanti
e sistemi scolastici che insistono molto sulle prestazioni, su una valutazione
solo normativa (cioè riferita ai risultati medi della classe) e sulla
competizione tra studenti, tenderanno a far sviluppare attribuzioni esterne,
stabili e incontrollabili, mentre un fuoco sullo sviluppo delle competenze,
sull’uso di strategie, sulla consapevolezza e l’autonomia nel gestire i propri
investimenti di sforzo e impegno tenderanno a far sviluppare attribuzioni di
tipo più interno e controllabile.
Allo
stesso modo, la prevalenza negli insegnanti e nei sistemi scolastici di teorie
che vedono l’intelligenza o gli stili di apprendimento come fissi, immutabili e
scarsamente sviluppabili nel tempo avrà degli effetti sulle attribuzioni non
paragonabili rispetto a teorie multifattoriali (ad esempio, la teoria delle
intelligenze multiple), che permettano agli individui di considerarsi portatori
di capacità flessibili, dinamiche e diverse in settori diversi. Parte del processo di ristrutturazione delle
proprie attribuzioni consiste proprio nell’affrontare e autovalutare
compiti che permettano agli individui di fare esperienze diversificate, che li
portino a (ri)costruire attribuzioni realistiche nei
confronti delle proprie capacità in relazione alle attività in cui si articola
l’apprendimento linguistico: invece di sviluppare un’attribuzione del tipo “Non
sono portato per le lingue” è cruciale poter dire, innanzitutto a se stessi, “I
miei punti di forza sono le abilità orali, mentre devo curare con maggiore
attenzione quelle scritte”, oppure, “Non faccio fatica a controllare che ciò
che dico o scrivo sia accurato, ma devo anche cercare di buttarmi di più a
usare la lingua senza paura di fare errori”.
5. MOTIVAZIONE E COMPITI DI
APPRENDIMENTO
Se
le aspettative di successo sono un aspetto importante della motivazione ad
apprendere, l’altra faccia della stessa medaglia è costituita dal valore che gli studenti attribuiscono a
ciò che devono imparare e alle esperienze concrete attraverso cui costruiscono
il loro percorso di apprendimento, cioè i compiti
che sono chiamati a svolgere ogni giorno, particolarmente nel contesto della
classe. Non ci si impegna se non si ha almeno qualche speranza di riuscire, ma
non ci impegna nemmeno se quello per cui occorre sforzarsi non ha valore ai
propri occhi.
In
altri termini, la percezione della qualità
delle esperienze di apprendimento è una variabile fondamentale della
motivazione. Questo elemento di qualità è stato descritto in modo chiaro da
Schumann (1998), che, sulla base di ricerche neurobiologiche, ipotizza cinque
dimensioni sulle quali gli individui valutano gli stimoli che ricevono
dall’ambiente:
·
““la
novità” (il grado di originalità/familiarità);
·
“la
piacevolezza” (l’attrattiva);
·
“il
significato dello scopo o del bisogno” (la misura in cui lo stimolo è
strumentale nel soddisfare bisogni o raggiungere scopi);
·
“il
potenziale di autoefficacia (coping)”(la misura in cui l’individuo si aspetta di
essere in grado di fronteggiare l’evento);
·
“l’immagine
del sé e l’immagine sociale” (la misura in cui l’evento è compatibile con le
norme sociali e il concetto di sé dell’individuo)” (Cohen 2009: 171)
Tralasciando le ultime due dimensioni, su cui ci siamo soffermati a lungo nei paragrafi precedenti, ci concentriamo sulle prime tre, che, dal punto di vista didattico, possono essere identificate con alcune caratteristiche concrete dei compiti di apprendimento[7]. L’importanza di queste caratteristiche, e, più in generale, dei contesti e delle situazioni in cui si attua il processo di apprendimento/insegnamento, non deve essere sottovalutata. E’ stato dimostrato, ad esempio, che, persino in casi in cui la motivazione integrativa era alta, le ragioni dell’insuccesso nell’apprendimento di una L2 potevano essere collegate ad una percezione negativa delle pratiche di classe; e all’opposto, è stato pure dimostrato che, sia pure in presenza di tensioni tra gruppi linguistici con conseguente scarsa motivazione integrativa, il desiderio di continuare a studiare la L2 era correlato ad una percezione positiva della qualità dell’insegnamento e delle esperienze di apprendimento (Dörnyei 2005).
E’ interessante, ancora una volta, confrontare i risultati della ricerca con le affermazioni degli studenti:
(33) Ricordo con gioia un bellissimo progetto fatto in
1a, era chiamato “Progetto Cartabianca”. Un gruppo di
ragazzi scriveva articoli di vario genere che raccoglieva e completava con
immagini e pubblicità un giornale quotidiano. Partecipare a questo era stato
entusiasmante e istruttivo, l’affiatamento del nostro gruppo era stato grande
ed eravamo riusciti a fare un ottimo lavoro che era stato poi mandato a un
concorso. (Rosanna, 17)
(34) Mi sento motivata in quelle materie o in quei
progetti in cui non basta studiare, ma in cui bisogna saper usare la propria
testa e la propria creatività, magari collaborando con altre persone. Insomma
in attività che combinano discipline diverse ed esperienze personali. (Mara, 17)
(35) Mi è piaciuto fare un lavoro di inglese su un autore
americano perché, partendo da un libro letto in classe, dovevamo fare una
specie di lezione per spiegare a coloro che non avevano letto il libro perché
il libro in questione era tanto importante. Mi è piaciuto farlo perchè ho potuto dimostrare che sono in grado di spiegarmi
in un modo semplice ma esauriente senza l’aiuto di un professore o di un
compagno. (Lorenzo, 18)
(36) Mi sento motivata … quando si mette in pratica ciò
che si è studiato solo teoricamente, e facendo esercizi in classe, guidati
dall’insegnante, in modo da poter poi accorgersi se quell’esercizio saremmo
stati in grado di svolgerlo altrettanto bene da soli. (Roberta, 17)
(37) Per esempio, in questo periodo, a gruppi, dobbiamo
esporre e spiegare ai nostri compagni argomenti che dobbiamo studiare e capire
a casa. Credo che questo sia utile e dia prova di grande maturità (per chi ci
riesce). (Andrea, 14)
(38) Le lezioni dovrebbero coinvolgere lo studente, non
essere frettolose. I risultati delle prove dovrebbero essere chiari e ci
dovrebbe essere uno spazio dopo le prove per discutere gli errori e il modo di
migliorarsi (cosa che manca sempre). (Maurizio,
16)
(39) La cosa dava anche soddisfazioni perché il
professore ritirava i resoconti e poi essi venivano confrontati in classe e per
ciascuno vi erano critiche costruttive oltre a complimenti ed a piccoli bonus
sui voti. (Carla, 16)
Queste affermazioni
confermano in larga misura ciò che pedagogisti, metodologi e insegnanti di
solito considerano come caratteristiche
motivanti dei compiti di apprendimento: rilevanza,
attenzione e coinvolgimento, varietà e scelta, equilibrio tra facilitazione e autonomia,
autoregolazione strategica, feedback e autovalutazione formativa[8].
Rilevanza. In primo luogo, è importante,
come in (33), che il compito “agganci” lo studente tramite un collegamento
evidente con i suoi bisogni, i suoi interessi e le sue esperienze precedenti.
“Partire dal noto per scoprire il non-noto” equivale a riconoscere il ruolo
cruciale delle pre-conoscenze e delle abilità acquisite nella costruzione dei
nuovi saperi. Questo lavoro di (ri)costruzione deve
però essere finalizzato subito ad uno scopo chiaramente identificato e a
obiettivi esplicitati e condivisi nella
classe, tra insegnanti e studenti, e possibilmente progettato in modo da
realizzare un “prodotto” visibile, valutabile e fruibile, se appena possibile
da altri, cioè da un pubblico anche esterno alla classe. In tal modo il compito
di apprendimento, che si realizza nelle condizioni “laboratoriali”
costituite dall’ambiente scolastico, assume un’utilità e un’operatività che
travalica i confini della classe e ne riporta i risultati nel mondo reale,
tentando in tal modo di evitare la frattura tra scuola e realtà sociale, tra
simulazione e autenticità, tra apprendimenti la cui utilità è rimandata ad un
incerto futuro e apprendimenti di cui è possibile percepire subito la concreta
applicabilità.
Attenzione e coinvolgimento. Se i
contenuti del compito sono un punto di partenza fondamentale, lo sono
altrettanto le procedure di esecuzione. E’ importante da questo punto di vista
che l’attenzione e la curiosità vengano stimolate sin dall’inizio, attraverso
elementi di novità, curiosità, sorpresa. Se una struttura ricorrente di
attività didattiche può aiutare a rendere le procedure più facilmente
riconoscibili ed eseguibili, non bisogna dimenticare che la routine è sempre un’arma a doppio
taglio. Tuttavia, stimolare la motivazione all’inizio del compito è solo il
primo passo: la motivazione deve essere poi mantenuta durante il corso
dell’esecuzione del compito, per cui il coinvolgimento attivo diventa un
elemento vitale. In altre parole, oltre a introdurre elementi che aiutino gli
studenti a percepire l’utilità di un lavoro (orientamento
al fine) è importante anche che le procedure di esecuzione siano
coinvolgenti anche indipendentemente dal fatto che la rilevanza sia
immediatamente e continuamente percepibile (orientamento
al mezzo). Come viene detto in (34), lo sviluppo di una competenza non è
tanto basato sul riprodurre contenuti memorizzati o sull’applicazione di
concetti e regole, né soltanto sul riattivare schemi già interiorizzati, quanto
piuttosto sulla stimolazione all’indagine, cioè su domande a cui trovare una
risposta, problemi per cui formulare possibili soluzioni, ipotesi da costruire
e verificare: “usare la propria testa e la propria creatività”, come dice Mara.
Si tratta dunque di adottare approcci centrati sul ruolo attivo e sulla
responsabilizzazione dello studente, insieme alla richiesta di un livello di
sforzo e impegno ragionevoli anche se non eccezionali.
Varietà e scelta. E’ interessante che la
modalità di lavoro spesso citata dagli studenti sia quella collaborativa (33) (34) (35). Questa dimensione è particolarmente
significativa per la motivazione perché è risaputo, ed è stato dimostrato anche
dalla ricerca (Dörnyei 2002), che i livelli di
motivazione degli studenti non sono indipendenti da quelli dei loro compagni:
spesso il lavorare con compagni più o meglio motivati può essere di aiuto a
creare una propria migliore disponibilità. In altre parole, e in sintonia con
la visione “situata” della motivazione adottata in questo contributo, la
motivazione al compito viene co-costruita dai partecipanti all’interazione. Tuttavia,
anche il lavoro a piccoli o grandi gruppi deve continuare a far parte di una
gamma di modalità di interazione, che comprende ovviamente anche il lavoro
individuale, a coppie, a classe intera. Questo principio di varietà, che si estende anche agli
strumenti, ai materiali, alle attività previste per un compito (testi scritti e
orali, immagini, strumentazione informatica, ecc.) assume il suo più importante
significato se associato al principio di scelta,
nel senso di rendere disponibile agli studenti la possibilità di scegliere tra
compiti, tra sotto-compiti e/o tra modalità di esecuzione dello stesso compito.
Equilibrio tra facilitazione e autonomia. Una
delle maggiori difficoltà nella predisposizione di compiti di apprendimento è
la necessità di dosare in modo equilibrato elementi di facilitazione rispetto ad elementi che spingano gli studenti oltre
la “zona confortevole” in cui padroneggiano conoscenze e abilità e dentro
quella “zona di sviluppo prossimale” in cui possono, con la mediazione
dell’insegnante, dei compagni e dei materiali didattici, gradualmente assumere
una maggiore autonomia. I compiti,
detto in altro modo, devono al contempo operare una sintesi delicata tra sfida (cognitiva e affettiva) e sostegno, tra il troppo facile il troppo
difficile, tra il poco e il troppo controllato. Questo principio sembra ben
chiaro a molti studenti che, come in (35) e (36), rivendicano la necessità di
potersi mettere alla prova, di poter provare da soli, proprio per rendersi
conto di quanto stiano procedendo, come si è visto parlando del continuum estrinseco-intrinseco,
sugli assi di una progressiva maggiore autonomia, competenza e relazionalità.
Autoregolazione
strategica. Questo processo di graduale presa in carico del proprio
apprendimento non è automatico, né semplice, né uguale per tutti. Lo esprime
chiaramente Andrea (37), che, pur riconoscendo l’utilità di un lavoro
organizzato all’insegna dell’indipendenza, affida a quella nota tra parentesi (“per chi ci riesce”) tutti i suoi
dubbi. Proprio perché la motivazione si gioca spesso sul filo dell’equilibrio
delicato tra sfida e sostegno, tra facilitazione ed autonomia, è necessario che
i compiti incorporino degli stimoli metacognitivi,
cioè dei sostegni all’autoregolazione. Questo può tradursi in azioni, materiali
e strumenti che, oltre a chiarire gli obiettivi e i criteri di qualità attesi,
propongano esplicitamente e/o facciano emergere dagli studenti stessi delle
chiare procedure di esecuzione, cioè di pianificazione, monitoraggio e
valutazione del lavoro – sia in termini di prodotto realizzato o da realizzare,
sia in termini di processo, cioè di problemi potenziali o effettivamente incontrati
e di strategie da adottare o (non) adottare.
Feedback e autovalutazione formativa. In
questa ottica dinamica, di processo più che solo di prodotto, diventa
importante per l’autoregolazione il feedback,
dell’insegnante e dei compagni: un feedback che sia non “di controllo”, cioè generico, casuale, basato su impressioni e
focalizzato sulla persona e su obiettivi di prestazione, ma informativo-formativo, cioè
specifico, sistematico, basato su criteri esplicitati e focalizzato sul compito
e su obiettivi di padronanza (Mariani 2006). Ciò di cui gli studenti lamentano
spesso la mancanza, come in (38) e (39), sono proprio i tempi e gli spazi,
fisici ma anche psicologici, di una prospettiva di (auto)valutazione formativa e non solo sommativa, che non sia quindi
soltanto giudicante ma soprattutto descrittiva, che non stigmatizzi gli errori
come prova di debolezza o incapacità, ma li consideri invece come opportunità
di revisione e di crescita[9].
Soprattutto si tratta, dal punto di vista motivazionale, e come abbiamo già
chiarito illustrando le attribuzioni causali, di non sottolineare tanto fattori
interni stabili (come l’attitudine) o esterni (come la fortuna o la facilità
del compito), ma fattori interni e instabili (come lo sforzo e l’impegno, ma
anche l’utilizzo di strategie adeguate). In tal modo è possibile ipotizzare un
“circolo virtuoso” che ponga al centro degli interventi pedagogici e didattici
sulla motivazione proprio l’autoregolazione strategica e l’(auto)valutazione
formativa (Fig. 3).
Fig. 3 – “Il circolo
virtuoso” della motivazione
6. CONCLUSIONE: LE STRATEGIE
MOTIVAZIONALI DELL’INSEGNANTE E DELLO STUDENTE
I paragrafi
precedenti hanno già esplicitamente citato le implicazioni pedagogiche e
didattiche che è possibile trarre dalla considerazione di alcuni fondamentali
approcci teorici alla motivazione ad apprendere. Solo relativamente di recente
la letteratura sulla motivazione negli apprendimenti linguistici ha tentato una
sintesi dei contributi “classici” della didattica delle lingue con gli apporti
della psicologia dell’apprendimento e dell’educazione. Il più volte citato Dörnyei, ad esempio, ha riassunto in un modello chiamato
della “pratica didattica motivazionale nella L2” (Dörnyei
2005) il ciclo di strategie che
l’insegnante può mettere in atto per promuovere la motivazione nella classe di
lingue:
·
creare le condizioni motivazionali di base (ad esempio, mantenendo un’atmosfera di classe che
implichi piacere e sostegno, curando la coesione della classe come gruppo);
·
generare la motivazione iniziale (ad esempio, promuovendo valori ed atteggiamenti
adeguati, incrementando l’orientamento allo scopo e le aspettative di successo,
assicurando la rilevanza dei materiali didattici);
·
mantenere e proteggere la motivazione (ad esempio, utilizzando compiti stimolanti, proteggendo
l’autostima degli studenti, promuovendo la cooperazione, l’autonomia e lo
sviluppo di strategie di automotivazione);
·
incoraggiare un’autovalutazione positiva (ad esempio, fornendo un feedback adeguato, curando la
formazione di attribuzioni appropriate, offrendo ricompense motivanti).
Si saranno
chiaramente riconosciute nelle quattro fasi di questo ciclo molte delle
implicazioni pedagogiche e didattiche che abbiamo illustrato in queste pagine. E’
interessante che lo stesso autore metta in relazione le strategie dell’insegnante con una serie di strategie di automotivazione che è lo
stesso studente a poter attivare. Altrove (Mariani 2006) le strategie di automotivazione si identificano con classi più generali di
strategie:
·
strategie socio affettive: ad esempio, ricorrere all’aiuto di compagni e
dell’insegnante, notare le strategie usate da altri ed aggiungerle al proprio
repertorio, ricorrere a tecniche per ridurre lo stress, gestire l’ansia e altre
emozioni negative, fare a se stessi o ad altri una promessa, giustificare un
fallimento inserendolo nel contesto in cui è avvenuto e cercando (con onestà)
di considerare anche i possibili lati positivi dell’esperienza;
·
strategie di volizione:
ad esempio, controllare le distrazioni, cercare di capire dove origina
l’eventuale noia o distrazione, coordinare le energie disponibili in relazione
ai propri impegni, crearsi immagini mentali positive di sé, non indugiare a
iniziare il lavoro, concentrarsi sul compito “senza guardare l’orologio”.
Come si
vede, queste strategie dello studente sono tutte caratterizzate da un elemento
di controllo consapevole di azioni,
pensieri ed emozioni, parte integrante dell’autoregolazione strategica che
abbiamo posto a fondamento del circolo virtuoso della motivazione (Fig. 3). Gli
“sforzi strategici” dell’insegnante si possono in tal modo coordinare con
quelli dello studente, sottolineando la stretta interdipendenza delle azioni di
entrambi (Fig. 1) e confermando così ancora una volta il carattere
multidimensionale e socialmente costruito della motivazione.
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N.B. Per tornare al testo, cliccare sul numero della nota.
[1] Per una descrizione dettagliata di questi progetti si
veda il sito dell’Autore agli indirizzi Internet www.learningpaths.org/convinzioni e www.learningpaths.org/motivazione
[2] Il numero accanto
al nome tra parentesi si riferisce all’età della studentessa o studente.
[3] Di particolare
interesse è lo studio sulla “propensione a comunicare in L2” (willingness to communicate in a L2), che
cerca di spiegare la prontezza o disponibilità di un individuo ad entrare in
contatto in un particolare momento con una specifica persona usando una L2 (Macintyre et al. 1998). Si tratta
di un modello teorico molto complesso, costituito da diversi livelli di
variabili linguistiche e psicologiche: la fiducia nelle proprie abilità
linguistiche, il desiderio di affiliazione, la motivazione interpersonale, gli
atteggiamenti tra gruppi, i parametri della situazione sociale, la competenza e
l’esperienza comunicativa, e vari tratti di personalità.
[4] In altre parole,
gli studenti orientati al successo sono portatori di attribuzioni più interne
rispetto agli studenti orientati al fallimento (Williams et
al. 2004).
[5] Oltre alle dimensioni di stabilità (stabili/instabili) e di “locus” di causalità (interne/esterne) Weiner,
il principale esponente della teoria delle attribuzioni, ha successivamene
aggiunto una terza dimensione strettamente correlata alle due originarie: la controllabilità delle cause da parte
dell’individuo (Weiner 1979, 1986). Sull’applicazione
della teoria di Weiner all’apprendimento linguistico
si veda ad esempio Williams e Burden 1999.
[6] Sulla natura e il
ruolo delle attitudini nell’apprendimento
linguistico si veda ad esempio Mariani 2010.
[7] La nozione di compito può essere riferita sia all’intera
esperienza di apprendimento di una lingua, sia alle specifiche esperienze,
inclusi i materiali e le attività, con cui si attualizza in concreto l’apprendimento,
in classe, giorno dopo giorno. Nella prima accezione sono molto importanti le
convinzioni e gli atteggiamenti che gli studenti sviluppano riguardo a che cosa
significa “sapere” una lingua e riguardo a cosa significa “apprendere” una
lingua: cf. in proposito Mariani 2011 e Mariani (in
stampa).
[8] Questi fattori sono
citati anche nel modello processuale
della motivazione in L2 di Dörnyei (2001), che
ipotizza tre tipi di motivazione, corrispondenti a tre fasi diverse
nell’esecuzione dei compiti: la fase prima
dell’azione (motivazione centrata sulla scelta),
la fase durante l’azione (motivazione
centrata sull’esecuzione vera e
propria) e la fase dopo l’azione
(motivazione centrata sul feedback
retrospettivo).
[9] La ricerca (ad
esempio Kimberly et al.
1999) ha dimostrato che la motivazione intrinseca è associata allo stile comunicativo degli insegnanti: un
feedback “di controllo”, che non fornisce informazioni sull’apprendimento dello
studente e non ne promuove l’autonomia, non favorisce il senso di autodeterminazione,
né il piacere il apprendere.
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