Luciano Mariani
Relazione tenuta al Seminario Nazionale LEND “Insegnare e apprendere le
lingue in un mondo che cambia” – Bologna, 18-20 ottobre 2007
Introduzione
La questione della motivazione è più spesso oggetto di commenti e citazioni più o meno esplicite che non di trattazioni sistematiche e approfondite. E’, di fatto, un tema strisciante nei dibattiti pedagogici, e non di rado finisce per costituire una pesante ipoteca sul valore degli interventi didattici: le lamentele di insegnanti e genitori sulla mancanza di motivazione negli studenti si accompagnano alla percezione di questo fattore come di una variabile quasi indipendente nel processo di apprendimento/insegnamento, così che anche le proposte didattiche più convincenti e innovative vengono spesso svalutate proprio per il fatto di essere viste come condizionate alla base da questo fattore.
Gli apporti teorici non sono da meno nel reiterare che la motivazione è una delle condizioni preliminari di ogni apprendimento:
Gli elementi che definiscono il processo di apprendimento/insegnamento sono i seguenti: i) esposizione … alla lingua oggetto di studio; ii) opportunità d’uso linguistico …; iii) motivazione a rispondere alle due condizioni precedenti. (C. Brumfit) (1)
Il trasferimento della competenza da una lingua ad un’altra avviene a condizione che ci sia un’esposizione adeguata alla lingua e una motivazione adeguata ad apprenderla. (J. Cummins) (2)
… data la motivazione, è inevitabile che un essere umano apprenda una seconda lingua se è esposto ai dati linguistici. (S.P. Corder) (3)
La motivazione finisce così per essere considerata un dato di fatto, un fattore pervasivo ma scontato, il risultato casuale di circostanze più o meno fortuite se non proprio un dono di natura. I diffusi determinismi di carattere psicologico e socioculturale ci costringono troppo spesso dentro formule un po’ ambigue del tipo “si ha successo perché si è motivati, ma si è motivati perché si ha successo”, e, d’altro canto, non è facile esplorare la galassia di fattori che costituiscono il costrutto “motivazione” senza cadere nelle trappole dell’ovvietà (“non studia perché non è motivato”). Conviene allora cambiare prospettiva e cominciare a considerare invece questo importante aspetto dell’apprendimento come un costrutto dinamico e come una vera e propria competenza multidimensionale da costruire e alimentare.
In questa ottica sono da riscoprire e da rivalutare sia le prospettive teoriche sulla motivazione, sia gli interventi strategici che è possibile mettere in atto in classe. Le prospettive teoriche possono fornirci indicazioni preziose su aspetti conosciuti, ma che hanno un impatto ancora troppo poco rilevante nella prassi, come le relazioni reciproche tra motivazione, da un lato, e bisogni, obiettivi, percezioni di competenza, aspettative di successo di studenti (e insegnanti), dall’altro. Gli interventi strategici, nel quadro di un clima di classe positivo, possono d’altronde investire direttamente i compiti di apprendimento e le dinamiche che li possono rendere più motivanti: ad esempio, il valore percepito, la doppia dimensione di sfida e di sostegno all’apprendimento, il feedback dell’insegnante e l’impatto della valutazione.
Questo contributo, tuttavia, non intende fornire né un quadro teorico esaustivo, né una serie di ricette o consigli pratici, ma piuttosto considerare, all’interno della “galassia motivazione”, alcune “stelle” particolarmente brillanti, che riguardano la motivazione
· come costrutto multidimensionale e dinamico;
· come continuum sull’asse estrinseco-intrinseco;
· come risultato dell’interazione tra valore percepito del compito e aspettativa di successo.
Queste tre prospettive ci forniranno elementi per valutare il valore motivante dei compiti, e, più in generale, degli ambienti di apprendimento.
Per una volta, il punto di partenza di un viaggio di esplorazione di questo tipo non saranno né gli studi teorici, né le prassi didattiche, ma gli studenti stessi, le cui voci sono state raccolte nel corso di un sondaggio (4) che ha coinvolto parecchie centinaia di ragazzi e ragazze delle scuole secondarie di primo e secondo grado. Pur non potendo fornire risultati quantitativi statisticamente rilevanti, questo sondaggio ci consente tuttavia di partire dal vissuto quotidiano degli studenti e di farci riscoprire, attraverso le loro parole, i fattori che più vengono percepiti come cruciali nel favorire la motivazione ad apprendere a scuola.
La motivazione come
costrutto multidimensionale e dinamico
Un’esperienza particolare e positiva posso dire di viverla attualmente in questa classe grazie ai compagni e al rendimento scolastico. In particolar modo i compagni perché è grazie a loro che ogni mattina trovo la carica e la motivazione per alzarmi dal letto e venire a scuola, dove ogni giorno è una festa insieme a loro. (Barbara, 17 anni)
La voglia di essere felice. Non si può essere felice andando sempre male a scuola, prima per (forse) la presa di mira dei professori, poi per i rimproveri a casa … (Enrica, 15 anni)
Bisogna lavorare in un buon ambiente, instaurare rapporti con gli insegnanti e essere sostenuto e spronato in famiglia. (Mario, 17 anni)
Quello che mi spinge a studiare è … soprattutto il fatto che osservando il mondo del lavoro al giorno d’oggi, lo vedo duro e faticoso e lontano da me. Per questo cerco di studiare al meglio per ottenere buoni risultati e chissà mai una buona posizione nella vita futura. Lo studio mi apre a prospettive migliori. (Francesco, 17 anni)
Questi studenti ci aiutano a ricordare che la motivazione è un costrutto multidimensionale: non solo, dunque, di carattere psicologico, in quanto centrato sulle dinamiche della personalità individuale, ma anche di carattere socioculturale, in quanto risultato delle interazioni che l’individuo intrattiene con l’ambiente circostante, che a sua volta condiziona il soddisfacimento di bisogni personali profondi. Questo ambiente è costituito, in primo luogo, dal gruppo-classe, compresi naturalmente gli insegnanti, ma si apre ad una rete di rapporti interpersonali, che comprendono la famiglia e la scuola nel suo complesso, fino ad allargarsi alle dimensioni più vaste della comunità, della società e dei progetti di vita e di lavoro (Fig. 1).
Fig. 1 – La rete di relazioni che condiziona l’apprendimento a scuola
Sì, all’inizio non mi piaceva latino, poi però facendo sempre i compiti ha incominciato a piacermi. (Gisella, 16 anni)
Gisella ci ricorda le parole di T.S. Eliot proprio a questo proposito:
Nessuno può veramente diventare istruito senza aver fatto qualche studio per cui non ha provato alcun interesse.
ma sottolinea anche il fatto che la motivazione è un processo dinamico, evolutivo, che può riservare sorprese, e che proprio per questo deve farci restare fiduciosi, in noi stessi a scuola ma anche oltre, nella vita che attende i nostri studenti oltre la scuola:
La cosa che più mi meraviglia
è che malgrado tutta la matematica che ho imparato a scuola, io abbia potuto
conservare l’amore per la matematica. (Albert Einstein!)
La motivazione come continuum sull’asse estrinseco-intrinseco
Tutti noi teniamo alla motivazione intrinseca - il fare qualcosa per il gusto di farlo. Tuttavia, a scuola non si studiano solo cose interessanti, né si studia sempre in modi interessanti. L’apprendimento in un ambiente istituzionalizzato implica un elemento di costrizione che non si può dimenticare. Puntare solo, o principalmente, sulla motivazione intrinseca, significa anche implicitamente svalutare tutte le altre forme di motivazione. Ma è poi proprio così netta la contrapposizione tra intrinseco e estrinseco?
La mamma, la voglia di essere promossa, ricevere il cellulare, poter realizzare il sogno di diventare veterinaria. (Serena, 13 anni)
La soddisfazione di avere voti alti, conoscere cose che mi permettono di capire e apprezzare le cose che mi circondano. Finché vado bene a scuola posso impegnarmi anche in altre attività che mi piacciono (questo mi spinge ad impegnarmi nello studio, in modo da studiare per il minor tempo possibile). (Enrico, 17 anni)
Sinceramente studio e mi impegno di più quando so di avere uno scopo, per esempio andare in vacanza con le amiche. Ma pensandoci bene poi penso anche al mio futuro come sarà senza un titolo di studio. (Camilla, 15 anni)
Personalmente, mi impegno
nello studio perché vorrei cambiare/rendere la mia vita diversa dagli altri.
Nel senso avere un buon lavoro, una vita normale in futuro, e così nessuno mi
tratterà male.
(Emanuele, 15 anni)
In realtà, la motivazione sembra oscillare sempre sul continuum estrinseco-intrinseco. Le
persone sembrano spesso essere motivate contemporaneamente
da un insieme di fattori molto diversi, anche conflittuali, che interagiscono
tra loro, e che si integrano a formare il profilo motivazionale di ognuno di
noi, profilo che è unico e irripetibile, e che cambia e si evolve in
continuazione. Dunque non è solo questione di opporre intrinseco a estrinseco e
di considerare la motivazione intrinseca come l’unica o anche semplicemente la
migliore o la più auspicabile; si tratta piuttosto di capire e apprezzare la
miscela dei fattori coinvolti. Insomma, invece di chiederci Quanto sono motivato? dovremmo chiederci
Come sono motivato?
Tuttavia, non tutto si equivale su questo continuum. Per gli insegnanti in particolare si tratta di promuovere la qualità dello sviluppo del profilo – una qualità che faccia progredire le persone su tre assi integrati:
· l’asse dell’autonomia: cioè la percezione di prendere decisioni e di assumere comportamenti sempre meno dipendenti da controlli esterni e sempre più autodeterminati;
· l’asse della competenza: cioè la percezione di poter eseguire dei compiti grazie all’aumento delle proprie capacità;
· l’asse della relazionalità: cioè la percezione di entrare sempre più in relazioni interpersonali in cui le proprie decisioni e i propri comportamenti hanno un impatto non solo su di sé ma anche su altri (Fig. 2).
Fig. 2 – L’evoluzione del profilo motivazionale sul continuum
estrinseco-intrinseco
La motivazione come
risultato della formula “valore x aspettativa”
“Gli studenti possono
essere motivati ad apprendere da una lezione o da un’attività indipendentemente
dal fatto che trovino il suo contenuto interessante o i suoi processi piacevoli”
(J. Brophy) (Brophy 2003)
Questa citazione sembra rimettere in discussione alcuni principi con cui gli insegnanti hanno spesso tentato di affrontare il tema della motivazione a scuola: non si è sempre puntato sull’interesse dei contenuti e sul fatto di rendere lo studio coinvolgente e magari anche piacevole? Che cos’altro potrebbe spingere una persona a impegnarsi nello studio? Si è forse tralasciato qualcosa? Le affermazioni di due studenti possono forse aiutarci a capire il senso delle parole di Brophy:
Normalmente, a scuola mi sento motivato a lavorare in situazioni non tanto divertenti (come si crederebbe subito) ma piuttosto appassionanti. Tali situazioni possono comprendere l’uso di macchinari sofisticati o la realizzazione di esperimenti importanti, per quanto difficili e/o faticosi. (Giulio, 16 anni)
Mi spinge il fatto di
raggiungere buoni risultati in tutte le materie. Questo mi dà un senso di
piacere e mi rende contento perché è una sfida che riesco tranquillamente a
vincere. (Pierpaolo, 18 anni)
Mi sembra che Giulio di fatto finisca per sfatare alcuni luoghi comuni che spesso circolano sulla motivazione: per esempio che lo studio possa essere anche soltanto piacere, per non dire proprio divertimento. Notate come si premura di precisare “situazioni non tanto divertenti (come si crederebbe subito)”, e l’aggettivo che usa è diverso anche se ancora più forte: “appassionanti”. E dà degli esempi, in cui ciò che sembra contare è il valore percepito del compito, di quello che si sta facendo – insomma, Giulio sembra voler dire che non è questione di avere un interesse superficiale per un argomento, né di utilizzare una procedura di lavoro piacevole; non è neanche questione di fare cose facili o leggere: la molla che fa scattare la motivazione (se non proprio la passione, come dice lui) è una sottile percezione del valore e del senso, per se stessi, del compito. Non è propriamente la motivazione intrinseca, il piacere di fare una cosa per il gusto di farla, ma è qualcosa che ha a che fare con il valore motivante dei compiti di apprendimento, su cui torneremo tra poco.
Tuttavia, è sufficiente percepire un compito come meritevole di essere eseguito? Diciamo subito un “no” secco, e rileggiamo quello che dice Pierpaolo: l’altro fattore essenziale di questa motivazione ad apprendere è evidentemente la percezione di potercela fare, di essere in grado di ottenere un buon risultato se si investe l’impegno necessario. E allora l’altro fronte che ci si apre è di capire che cosa condiziona questa aspettativa di successo e questo senso di autoefficacia.
Possiamo dunque condensare queste indicazioni nella formula “valore x aspettativa”.
Le aspettative di
successo e le attribuzioni causali
Ho chiesto agli studenti di identificare quali fattori, secondo loro, consideravano importanti nel determinare i loro successi e i loro fallimenti a scuola e, contestualmente, che cosa avrebbero dovuto fare o che cosa sarebbe dovuto succedere perché ottenessero risultati migliori. Le loro risposte sono state illuminanti:
Un miracolo. (Luca, 14 anni)
Sicuramente al primissimo posto c’è la “fortuna” di avere un buon insegnante! O ci sono quelli incompetenti, o quelli che esercitano “tirannie”! Tutto dipende da come è l’insegnante, l’ho notato dai miei risultati scolastici! (Patrizia, 17 anni)
Un giorno la professoressa era di buon umore e non ha tenuto conto di alcuni errori nell’esposizione dell’argomento trattato. (Massimo, 16 anni)
La fortuna è un’illusione fallace, anche se incide sull’esito delle cose; occorre ottimizzare la preparazione, i risultati vengono da soli, come i funghi. (Giancarlo, 16 anni)
Alcune verifiche sono basate soprattutto sulle capacità personali dove l’impegno nello studio conta poco. (Marta, 17 anni)
Intelligenza e capacità personali influenzano il metodo di studio e l’interesse, perché una persona, pur impegnandosi, ma non intelligente, non può ottenere buoni risultati. (Tiziano, 16 anni)
Questi studenti mettono a fuoco le loro attribuzioni causali, cioè le percezioni che essi hanno della causa dei loro successi e fallimenti. E’ abbastanza comprensibile che se si considera la fortuna come fattore primario, si opta per un’attribuzione, oltre che ovviamente instabile, anche esterna, cioè indipendente da sé; mentre se si dà importanza allo sforzo, cioè all’impegno, si opta per un’attribuzione sempre instabile (perché ci si più impegnare più o meno, oggi sì e domani no), ma interna, cioè legata alle proprie possibili scelte (Fig. 3).
Fig. 3 – Le attribuzioni causali
Ma una delle idee più interessanti e in un certo senso più preoccupanti, quando si esaminano le risposte degli studenti, è l’estrema varietà di percezioni e convinzioni rispetto al ruolo che giocano l’intelligenza, le capacità personali e le attitudini. In particolare, se si è convinti di non essere molto intelligenti, o di non avere una buona attitudine per le lingue, tutto ciò limita per forza di cose il senso della propria autoefficacia; e se magari si è anche convinti che intelligenza e capacità siano fattori innati, generali e immutabili, è chiaro che ci si sentirà ancora più ingabbiati in un proprio “io” quasi geneticamente predestinato …
Riflettendo su tutto questo forse ci risulta ancora più chiara, ai fini pedagogici, l’importanza di teorie dell’intelligenza multi-fattoriali come quella delle intelligenze multiple – perché se io mi rendo conto di essere portatore di capacità diverse in diversi settori, e se la scuola mi dà la possibilità di mettere alla prova queste mie diverse capacità in una varietà di compiti pure diversi, forse allora potrò cominciare a riaggiustare le mie convinzioni profonde. E forse potrò rinunciare ad attribuzioni globali e rigide (del tipo, “Non sono abbastanza intelligente da avere buoni risultati a scuola”) e cominciare a costruire attribuzioni più realistiche, cioè basate su una consapevolezza critica dei propri punti di forza e di debolezza e sull’idea che si stanno costruendo competenze che hanno un carattere dinamico e flessibile (del tipo, “le mie capacità logico-matematiche mi facilitano, mentre le mie capacità linguistiche, specialmente nello scritto, richiedono un sostegno, insomma ho bisogno di una serie di strategie”).
In definitiva, la nostra ambizione potrebbe essere quella di portare i nostri studenti ad attribuire il proprio successo ad una combinazione di abilità e di sforzo ragionevole: vorremmo che pensassero di affrontare dei compiti che rientrano nelle loro capacità, ma che richiedono un impegno possibile ma non eccezionale. E, parallelamente, vorremmo che il proprio insuccesso venisse attribuito, oltre che magari ad un livello di impegno insufficiente, anche a strategie insufficienti o non adeguate al compito specifico (si badi bene, strategie di apprendimento specifiche, non abilità personali in generale). In due parole: uno sforzo strategico, come ci ricordano Victor Hugo e Sigmund Freud:
“Il genio è per il dieci per cento ispirazione e per il novanta per cento perspirazione” (Victor Hugo)
“Quando l’ispirazione non arriva, le vado incontro a metà strada.” (Sigmund Freud)
Il valore motivante
dei compiti
Torniamo all’altro fattore della formula “valore x aspettativa”. Alla luce di quanto abbiamo appena esplorato, che cosa può aumentare il valore motivante dei compiti di apprendimento che gestiamo tutti i giorni con i nostri studenti?
Ricordo con gioia un bellissimo progetto fatto in 1a, era chiamato “Progetto Cartabianca”. Un gruppo di ragazzi scriveva articoli di vario genere che raccoglieva e completava con immagini e pubblicità un giornale quotidiano. Partecipare a questo era stato entusiasmante e istruttivo, l’affiatamento del nostro gruppo era stato grande ed eravamo riusciti a fare un ottimo lavoro che era stato poi mandato a un concorso. (Rosanna, 17 anni)
Un bel ricordo mi è rimasto dagli stage dell’anno scorso all’Hotel. Lavoravo in cucina alle preparazioni fredde e la cosa che mi piaceva di più è che vedevo tutte le guarnizioni che facevano e sono riuscito a memorizzare cose che tuttora faccio a casa quando ci sono ospiti a pranzo. (Vittorio, 17 anni)
Rosanna e Vittorio sembrano dirci qualcosa di cui siamo ben consapevoli: ha più possibilità di motivare un compito che si colleghi all’esperienza diretta delle persone, ai loro bisogni, ai loro interessi, ma che sia nello stesso tempo finalizzato, orientato sin dall’inizio ad uno scopo, ad un obiettivo esplicitato e condiviso: un compito di cui, insomma, siano il più possibile evidenti l’utilità e l’operatività, caratteristiche che potremmo riassumere col termine complessivo di rilevanza.
Mi aiuta il fatto che trovo la storia come un libro giallo, piena di misteri e intrighi. (Gloria, 13 anni)
Mi sento motivata in quelle materie o in quei progetti in cui non basta studiare, ma in cui bisogna saper usare la propria testa e la propria creatività, magari collaborando con altre persone. Insomma in attività che combinano discipline diverse ed esperienze personali. (Mara, 17 anni)
Una delle esperienze più belle è stata senz’altro la visita guidata ad Aosta perché, oltre ad aver perso ore di lezione, ogni studente ha dovuto presentare un monumento agli altri studenti. (Massimo, 14 anni)
Massimo, come dice il suo nome, ci riporta dai massimi sistemi al concreto quotidiano: perché, dal suo punto di vista, una gita è più che rilevante se fa perdere ore di lezione! Ma c’è dell’altro, ovviamente: c’è, per esempio, l’approccio di Gloria (non sappiamo quanto sollecitato dall’insegnante o vissuto spontaneamente) che si genera un senso di curiosità, di novità, di originalità e di sorpresa; c’è Mara, che giudica importante generare domande, esplorare problemi, ipotesi da fare con la propria testa; e c’è ancora Massimo, che ci ricorda il ruolo attivo e responsabile che ha dovuto svolgere. Se volessimo riassumere tutto questo con un paio di termini potremmo scegliere attenzione e coinvolgimento.
Mi è piaciuto fare un lavoro di inglese su un autore americano perché, partendo da un libro letto in classe, dovevamo fare una specie di lezione per spiegare a coloro che non avevano letto il libro perché il libro in questione era tanto importante. Mi è piaciuto farlo perchè ho potuto dimostrare che sono in grado di spiegarmi in un modo semplice ma esauriente senza l’aiuto di un professore o di un compagno. (Lorenzo, 18 anni)
Mi sento motivata … quando si mette in pratica ciò che si è studiato solo teoricamente, e facendo esercizi in classe, guidati dall’insegnante, in modo da poter poi accorgersi se quell’esercizio saremmo stati in grado di svolgerlo altrettanto bene da soli. (Roberta, 17 anni)
Per esempio, in questo periodo, a gruppi, dobbiamo esporre e spiegare ai nostri compagni argomenti che dobbiamo studiare e capire a casa. Credo che questo sia utile e dia prova di grande maturità (per chi ci riesce). (Andrea, 14 anni)
Lorenzo, Roberta e Andrea ci indicano in modo molto chiaro un concetto ben presente nell’esperienza degli insegnanti. L’insegnante, e con lei o lui tutta la scuola, è un equilibrista, sempre in bilico tra la necessità di fornire sfide adeguate e la necessità di fornire sostegni altrettanto adeguati. Insomma, questi studenti hanno intuito benissimo quello che Vygotsky, Bruner e tanti altri ci ripetono da decenni: il livello di difficoltà dei compiti è cruciale per la motivazione. Trovare momento per momento il giusto equilibrio tra sfida e sostegno significa anche tenersi in bilico tra facilitazione e autonomia. Non è un compito semplice, ma non è solo l’insegnante che è in bilico sulla corda – sono gli stessi studenti, e qualcuno se ne rende conto: si noti quell’inciso tra parentesi di Andrea: “per chi ci riesce”. Non conosco personalmente Andrea, ma mi sembra che ci voglia dire proprio questo: che è difficile crescere e maturare, che si ha bisogno di un sostegno, di un ponteggio che va gradualmente tolto, e che questo non è facile per tutti allo stesso modo. Molti si perdono per strada, non sanno cosa fare, e, se si dà loro la possibilità di esprimersi, lo dicono chiaramente, a volte quasi con sofferenza. Alla domanda già menzionata, “Secondo te, che cosa dovresti fare per riuscire a ottenere dei risultati migliori?”, alcuni hanno risposto:
Stare più attento quando c’è letteratura invece di addormentarmi sul banco. (Domenico, 14 anni)
Copiare il più possibile. (Martino, 15 anni)
Copiare, copiare e copiare ancora. (Antonio, 15 anni)
Mentre alla domanda, “Hai trovato dei modi per riuscire a studiare argomenti difficili o per svolgere attività che trovi noiose?”, molti, dovremmo dire troppi, non hanno risposto. Altri hanno detto:
Leggere ai pupazzi facendo finta di parlare ai propri alunni. Per attività noiose, farle subito in modo da poter uscire senza il pensiero dei compiti. (Ines, 12 anni)
Io, se l’argomento non mi piace, studio a memoria senza capire niente. Se un materia è noiosa, a volte, anche se provo a studiare, non capisco niente. (Marisa, 16 anni)
Sì, ho trovato un modo per studiare più facile e divertente che è
quello di studiare con un amico o con più amici perché studiando in questo modo
ci si diverte e spesso, dopo, nel compito in classe ci si ricorda di una
battuta fatta e grazie a quello si ricordano le cose. (Simone, 16 anni)
Io leggo molte volte poi quasi ad ogni punto riassumo a fianco. E’ un lavoraccio che non mi porta nessun risultato decente. Però lo devo fare … (Giuseppe, 14 anni)
Insomma, mi è rimasta l’impressione di una grande solitudine metodologica, se posso usare questo termine insolito: molti studenti non sanno semplicemente cosa fare quando incontrano difficoltà, non hanno bussole di riferimento, non possiedono procedure o strategie di pianificazione, di esecuzione, di controllo. Se una definizione di strategia è, “Sapere cosa fare quando non si sa cosa fare”, allora molti studenti non sono strategici. D’altronde, sappiamo che imparare ad autoregolarsi, maturare in questo senso, è un processo personale delicato, che l’insegnante e la scuola possono solo promuovere e facilitare. E dunque una caratteristica dei compiti, che tocca direttamente una dimensione motivante, è lo stimolo all’autoregolazione strategica, attraverso il feedback, la riflessione e l’autovalutazione, insieme all’insegnante e ai compagni.
In sintesi, un circolo virtuoso potrebbe essere stimolato quando
· un compito stimola l’uso di strategie;
· le strategie vengono autovalutate;
· il successo nel compito viene attribuito, oltre che all’impegno, all’efficacia delle strategie adottate;
· questo apprendimento “strategico” genera aspettative positive nei confronti di se stessi (autostima) e dei prossimi compiti (autoefficacia).
In questo modo noi speriamo che tutti, non uno di meno, possano dire di se stessi, e il più presto possibile:
Ora conosco le regole del gioco. Posso sforzarmi, giocare meglio e magari vincere.
Note
(1) Citato in Ciliberti 1994: 19.
(2) Il
testo originale recita: “To the extent that instruction in Lx is effective in
promoting proficiency in Lx, transfer of this proficiency to Ly will occur
provided there is adequate exposure to Ly (either in school or environment) and
adequate motivation to learn Ly” (Cummins
2005: 4)
(3) "... given motivation, it is inevitable that a human being will learn a second language if he is exposed to the language data." (Corder 1981:1)
(4) Si vedano
Mariani 2006 e il sito www.learningpaths.org/motivazione,
da cui sono tratte le citazioni degli studenti. Su questo sito sono reperibili
le schede per condurre in classe sondaggi mirati sulla motivazione, oltre ad
un’ampia bibliografia e sitografia.
Riferimenti
BROPHY J. 2003. Motivare gli studenti ad apprendere. LAS, Roma.
CILIBERTI A.
1994. Manuale di glottodidattica.
CORDER S.P. 1981. Error analysis and interlanguage. University Press,
CUMMINS J. 2005. “Teaching for Cross-Language Transfer in Dual Language
Education: Possibilities and Pitfalls”, TESOL
Symposium on Dual Language Education: Teaching and Learning Two Languages in
the EFL Setting,
MARIANI L. 2006. La motivazione a scuola. Prospettive teoriche e interventi strategici. Carocci, Roma.
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