IL LATO NASCOSTO DELLA COMPETENZA:

LE CONVINZIONI E GLI ATTEGGIAMENTI NEGLI APPRENDIMENTI LINGUISTICI

 

 (Lingua e Nuova Didattica, Anno XLI, No. 5, Dicembre 2012)

 

Luciano Mariani

 

 

1. Introduzione

 

“L’inglese non ha così tante regole come il francese.”

“Per imparare una lingua occorre innanzitutto padroneggiare la grammatica.”

“Per le lingue bisogna proprio essere portati.”

 

E’ frequente ascoltare affermazioni come queste nei discorsi quotidiani, anche da parte di studenti e insegnanti. Si tratta di asserzioni che aprono delle finestre su quello che si pensa e su quello che si prova emotivamente rispetto all’imparare una lingua. Anche solo a livello intuitivo, è possibile ipotizzare che le convinzioni e gli atteggiamenti di chi impara e di chi insegna influenzino e condizionino in modo consistente i processi di apprendimento/insegnamento.

In questo contributo presenterò i risultati di un’indagine che ho svolto negli ultimi anni sulle convinzioni e gli atteggiamenti negli apprendimenti linguistici a scuola.

 

2. Il ruolo delle convinzioni e degli atteggiamenti nell’apprendimento

Credo sia importante esplicitare con chiarezza perché convinzioni e atteggiamenti sono così cruciali per chi apprende e per chi insegna una lingua, cioè chiarire la rilevanza che ha questo argomento, proprio oggi, in una fase in cui certamente i discorsi della comunità professionale degli insegnanti sono molto spesso centrati sulla definizione delle competenze e sulle certificazioni, cioè sugli aspetti che potremmo chiamare di “prodotto” dell’attività formativa. E’ chiaro che quando l’attenzione si sposta su che cosa studenti e insegnanti pensano e sentono a proposito del loro lavoro, ci si pone in una prospettiva diversa, più centrata sul “processo” – si entra, in altre parole, nella dimensione in cui interessa il percorso prima del risultato, il “come” e il “perché” prima del “quanto” e del “quanto bene”. Ma piuttosto che enfatizzare questa differenza di prospettive, vorrei tentare di dimostrare che è il concetto stesso di competenza che implica necessariamente una considerazione attenta delle differenze individuali, di cui convinzioni e atteggiamenti costituiscono una parte rilevante anche se normalmente nascosta.

Si consideri ad esempio quello che dice Giorgio, uno studente di una quarta liceo scientifico:

“… Inoltre l’inglese non ha regole per la pronuncia delle parole, ed infatti spesso bisogna ricorrere allo “spelling” per poterle scrivere. Questo mi pare alquanto stupido per una lingua, che dovrebbe avere regole precise anche nella pronuncia e nella relativa scrittura delle parole.”

Non è difficile immaginare come una concezione della lingua così rigida e normativa possa avere un impatto profondo sia sul modo di imparare di Giorgio che sulle sue reazioni alle attività didattiche che gli vengono proposte in classe.

Questo esempio invita subito a considerare i possibili conflitti tra le convinzioni di insegnanti e studenti. Per fare solo un esempio, si considerino i risultati di un mio questionario in cui la stessa domanda sulla correzione degli errori veniva posta sia all’insegnante che ai suoi studenti. In questa particolare classe in risposta alla domanda, “Gli errori dovrebbero essere corretti dall’insegnante?”, solo il 18% degli studenti sono d’accordo con l’insegnante che “No, però dovrebbero essere segnalati allo studente, in modo che possa porvi rimedio”. Metà della classe sceglie la risposta “Sì, sempre e subito, è sua responsabilità farlo”, e un altro 27% pensa che ci dovrebbero essere modalità diverse a seconda dei casi. E’ chiaro il divario tra le convinzioni dell’insegnante e quelle della classe, e su questa base sono prevedibili anche possibili implicazioni e magari conflitti rispetto a quello che l’insegnante propone e a come i suoi studenti reagiscono (sui conflitti di convinzioni tra insegnanti e studenti si vedano ad esempio Horwitz 1988, Cotterall 1995, Nunan 1995 e Peacock 1998).

Se poi si considera l’impatto delle convinzioni e degli atteggiamenti a livello sociale, è interessante e preoccupante un dato di qualche anno fa, contenuto nel “Sondaggio della Commissione Europea per l’Anno Europeo delle Lingue 2001”. In questo sondaggio si afferma che “il 22% della popolazione dell’Unione Europea non impara le lingue perché ritiene di non essere ‘brava’ a farlo” (European Commission 2002). In questo caso ci si riferisce alla percezione della propria attitudine a imparare una lingua, cioè alla convinzione profonda che si ha su se stessi in quanto capaci o meno di imparare, e del conseguente atteggiamento che influenza la decisione di intraprendere o meno un percorso di apprendimento.

Gli studi sulle convinzioni e gli atteggiamenti negli apprendimenti linguistici costituiscono una parte significativa, anche se non quantitativamente molto ricca, della ricerca sull’acquisizione della seconda lingua (tra i contributi più recenti citiamo Barcelos 2000, Bernat & Gvozdenko 2005, Gabillon 2005, Huang 2006, Mercer 2008). Le convinzioni sono state definite come “gli atteggiamenti, i valori, le teorie e le supposizioni riguardo all’insegnamento e all’apprendimento che gli insegnanti si costruiscono nel tempo e che portano con sé in classe” (Richards 1994: 5) e questa definizione potrebbe applicarsi specularmente anche alle convinzioni degli studenti. Un’altra definizione considera le convinzioni  "presunzioni generali che gli studenti posseggono su se stessi in quanto discenti, sui fattori che influenzano l’apprendimento linguistico, e sulla natura dell’apprendimento e dell’insegnamento delle lingue” (Victori e Lockhart 1995: 224) -  e, anche in questo caso, si potrebbe adattare la definizione alle convinzioni degli insegnanti.

Quello che però forse conta ancora di più è il fatto che le convinzioni, che sono di per sé pensieri, cioè rappresentazioni cognitive, non sono affettivamente neutre, anzi corrispondono a tutta una serie di reazioni emotive: in altre parole, una convinzione è sempre “calda”, si accompagna cioè a corrispondenti atteggiamenti. Questi ultimi, che non a caso sono stati definiti “convinzioni fornite di valore”(Wenden 1991: 52) implicano emozioni positive o negative nei confronti dell’oggetto dell’apprendimento, del processo di apprendimento e di se stessi in quanto partecipi di quel processo. Le emozioni possono inoltre accompagnarsi a giudizi o valutazioni, cioè a reazioni di accordo o disaccordo, di approvazione o disapprovazione, di approccio o di evitamento. Come sempre, gli aspetti cognitivi non possono essere dissociati da quelli affettivi: le convinzioni influenzano gli atteggiamenti e questi, a loro volta, condizionano le decisioni e le scelte, le azioni e i comportamenti.

Convinzioni e atteggiamenti si dimostrano dunque componenti cruciali di quella competenza esistenziale o “saper essere”, che il Quadro Comune Europeo di Riferimento identifica come una delle competenze generali di chi apprende ed usa una lingua (Consiglio d’Europa 2001). Vorrei ribadire con forza questo concetto: in un approccio costruttivista allo sviluppo delle competenze, o, in altri termini, in un approccio centrato non sulla disciplina o sul suo insegnamento ma sullo studente e sul suo apprendimento, le differenze individuali, tra cui trovano posto anche convinzioni e atteggiamenti, non sono un fattore secondario o un livello di speculazione astratta. Sono invece uno dei motori del processo di acquisizione di conoscenze e di sviluppo di abilità.

 

3. Un sondaggio sulle lingue straniere in contesto scolastico

Il sondaggio su cui riferisco in questo contributo fa parte di un progetto di ricerca sulle convinzioni e gli atteggiamenti di studenti e insegnanti di lingue straniere, che comprende anche un’indagine di tipo quantitativo, basata sull’utilizzo di un questionario a risposta multipla. (Per una discussione dei risultati di questo questionario si veda Mariani 2011. Per una descrizione dettagliata dell’intero progetto, comprese  le modalità e gli strumenti utilizzati, si veda il sito Internet dell’Autore www.learningpaths.org/convinzioni). Il sondaggio ha coinvolto parecchie centinaia di studenti e i loro insegnanti in istituti secondari di secondo grado (in gran parte licei classici, scientifici e linguistici) di cittadine medio-piccole del Nord Italia, e si è svolto durante gli anni scolastici 2008-2009 e 2009-2010. E’ stato chiesto agli studenti e ai loro insegnanti di completare due definizioni, oppure due metafore, oppure entrambe:

1.

“Sapere” una lingua straniera per me significa …

e/o

“Sapere” una lingua straniera per me è come …

2.

Per imparare una lingua straniera credo che uno studente dovrebbe …

e/o

Per me imparare una lingua straniera è come …

Si potevano anche aggiungere, volendo, disegni, schemi, simboli o altri elementi grafici.

Come si vede, i quesiti di fondo erano due:

a.    Come concettualizzano gli studenti la conoscenza di una lingua, cioè, che significato danno all’idea di “sapere” una lingua?

b.    Come concettualizzano gli studenti il processo di apprendimento di una lingua a scuola, cioè quali significati danno all’idea di imparare una lingua in un contesto scolastico?

I risultati sono stati utilizzati per due scopi. Il primo scopo era di ottenere una fotografia delle convinzioni e degli atteggiamenti di un campione di studenti. Questo quadro è poi stato utilizzato per elaborare le implicazioni di queste convinzioni sul loro approccio all’apprendimento e sulle loro reazioni all’insegnamento. Il secondo scopo era di permettere agli insegnanti nelle singole classi di riportare i dati ai loro studenti, cioè di utilizzarli come feedback per aprire uno spazio di riflessione e discussione e magari anche di mediazione rispetto al lavoro in classe. Questo secondo scopo è stato ovviamente il più coinvolgente per i singoli insegnanti e per le loro classi.

Il campione di studenti non è statisticamente rilevante, e quindi non fornisce dei risultati quantitativi che siano generalizzabili ad altri contesti. Vorrei invece usare la viva voce degli studenti per soffermarmi sulle implicazioni pedagogiche dei risultati. Quello che hanno scritto gli studenti sembra portare direttamente al cuore di molte questioni che sono oggi aperte nella didattica delle lingue, e in molti casi, come si vedrà, pone domande stimolanti  più che fornire risposte esaustive.

Uno degli elementi che più colpisce nei risultati di questo lavoro è l’enorme numero di metafore prodotte dagli studenti, che sembrano averle preferite rispetto alle definizioni, più fredde e impersonali. Queste metafore sono state analizzate allo scopo di far emergere delle categorie, in modo da costruire a poco a poco una mappa delle strutture più ricorrenti nelle convinzioni e negli atteggiamenti degli studenti.

 

4. Che cosa significa “sapere” una lingua straniera?

Di seguito riporto le metafore originali degli studenti, senza nessuna modifica. Il numero romano tra parentesi indica la classe, e dunque grosso modo l’età, un fattore ovviamente da tenere sempre ben presente. Tutte le metafore di questa sezione sono state prodotte come completamento della frase-stimolo: “Sapere” una lingua straniera per me è come …

A. La motivazione strumentale

 

·  impegnarsi per non essere bocciato (II)

·  fare qualcosa di utile, perché una lingua straniera si può usare, si può parlare, non come per esempio matematica che non mi serve tanto quando ho il tempo libero (III)

·  avere un vantaggio in più nel mondo del lavoro (IV)

·  fare un investimento a lungo termine (II)

·  avere qualcosa in più, disporre di qualcosa che non tutti hanno (II) … e vantarsi di possederlo (V)

·  avere una valigia in più da utilizzare in caso di bisogno (V)

·  avere una marcia in più sul motorino (IV)

 

La prima categoria generale di convinzioni emersa dall’analisi delle metafore degli studenti rimanda in modo inequivocabile ai vantaggi che può portare la conoscenza delle lingue, quello che in termini ormai “classici” viene indicato come motivazione strumentale. Ciò che risulta più interessante, tuttavia, è la gamma estesa di possibili tipi di motivazione strumentale: nei termini della teoria dell’autodeterminazione (Deci e Ryan 1985), si passa dalla forma più legata ad una regolazione esterna (l’impegno per evitare di essere bocciato) a forme via via più interiorizzate e più integrate nella personalità (l’utilità personale e per il lavoro, ma anche il senso di avere uno strumento in più, quasi un potere che distingue rispetto a chi non ce l’ha). Dunque una prima implicazione di queste metafore è che le motivazioni strumentali variano da individuo a individuo, e che lo stesso individuo può essere motivato anche da più fattori contemporaneamente, con il corollario che nessun tipo di motivazione, in quanto fattore dinamico ed evolutivo, può essere sottovalutato o minimizzato.

 

B. La motivazione integrativa

 

·  riuscire a diventare “straniera” ed essere considerata tale (I)

·  sentirsi a casa ovunque si vada, nel posto dove si parla; come sentirsi un vero inglese, tedesco, francese, ecc. (III)

·  entrare nella logica e mentalità prima del popolo che la parla e poi della lingua stessa (IV)

·  essere due persone in una, perché la lingua che sappiamo originariamente (lingua madre) ci contraddistingue come persone, sapere altre lingue ci fa essere qualcosa di più (II)

·  è come se cambiassi la mia nazionalità, perciò dovrei sapere una lingua alla perfezione (III)

 

Con queste metafore si passa all’altro ambito della motivazione “classica”, quella integrativa, che implica il desiderio di diventare parte integrante di un’altra cultura. Quello che forse più colpisce, però, è fin dove può arrivare questa aspirazione: fin quasi alla volontà di cambiare la propria nazionalità, o, come spesso hanno scritto gli studenti, di avere due nazionalità diverse. Si noti che ciò può comportare delle aspettative irrealistiche rispetto ai livelli di competenza necessari per raggiungere questo tipo di obiettivi così ambiziosi. Come si vedrà più avanti, l’idea di parlare una lingua alla perfezione, cioè l’ideale del “parlante nativo”, può costituire un’arma a doppio taglio, soprattutto perché non permette di considerare delle competenze parziali, che siano realistiche e diverse anche a seconda delle lingue studiate e dei propri bisogni.

 

C. Il senso di identità

 

Le metafore dei ragazzi sono andate ben oltre la classica distinzione tra motivazione strumentale e motivazione integrativa, e, in maniera quasi sorprendente, sembrano proiettarsi verso nuovi modi di concettualizzare la stessa motivazione linguistica:

 

·  diventare un’altra persona, cambiare quasi personalità e modo di essere (III)

·  essere due persone contemporaneamente (V)

·  recitare, giocare a vari ruoli, come calarmi in un personaggio, modificando la voce e il modo di pensare (penso come un tedesco, un francese, un inglese)(III)

 

Queste metafore, da una parte, confermano quello che gli insegnanti ben conoscono, e cioè che gli apprendimenti linguistici sono diversi da altri apprendimenti proprio perché possono implicare ben più dell’acquisizione di conoscenze e abilità: hanno un impatto sul proprio modo di essere, sulla propria identità, sui modi di pensare e di provare emozioni. Molti insegnanti, e molte persone coinvolte in apprendimenti linguistici non effimeri, hanno di fatto sperimentato queste percezioni nell’uso delle lingue: in modo più superficiale, la sensazione di agire come “attori”, o, in modo più profondo, un senso di ristrutturazione di sé, o addirittura la sensazione quasi schizofrenica di “sdoppiarsi”. Questo apre questioni cruciali per i nostri contesti multilingui e multiculturali: fino a che punto, ad esempio, è possibile plasmare una propria identità bilingue/biculturale e fino a che punto si può o si deve conservare la propria identità? In effetti, da questo punto di vista sembra di percepire, da parte di molti di questi ragazzi, una consapevolezza nuova, non solo di tipo strettamente individuale, ma anche legata ai cambiamenti dei nuovi contesti globali:

 

·  appartenere a un gruppo di persone che comunicano con la stessa lingua (I)

·  avere delle certezze in più, nel senso di poter riuscire ad esprimermi e comunicare con persone di lingua e cultura diversa (IV)

·  aprirsi al mondo, essere liberi di esprimersi al mondo e integrarsi a livello globale, avere un bagaglio culturale in più (V)

·  fare più parte del mondo (IV)

 

In questi casi sembra essere centrale, più che l’integrazione in una specifica cultura, la consapevolezza di un’integrazione più generale, in contesti in cui le lingue sono veramente uno strumento di comunicazione globale e allo stesso tempo una chiave, come dice uno di questi ragazzi, per essere “cittadino del mondo”. Sembra di cogliere in queste metafore un riflesso della profonda trasformazione che sta subendo il ruolo delle lingue. Il caso più macroscopico è ovviamente l’inglese, lingua mondiale, globale, internazionale, lingua franca – una lingua che non si sa nemmeno più a chi appartiene, tanto che si parla di lingue inglesi, ma che di fatto appartiene a chi la usa come ponte tra culture diverse. Non dimentichiamo che la maggior parte delle interazioni in inglese avviene oggi tra persone non madrelingua.  In questo senso, come è stato detto, “la maggior parte delle persone tende a sviluppare un’identità biculturale, in cui parte della loro identità è radicata nella loro cultura locale mentre un’altra parte è associata ad un’identità globale che li connette ai flussi internazionali” (Arnett 2002: 774). In altre parole, più che l’integrazione con una particolare cultura e l’assimilazione con i suoi parlanti nativi, oggi tende ad affermarsi l’integrazione con una comunità globale, il desiderio di far parte di una comunità immaginata o reale (Dörnyei e Ushioda 2010).

 

Tutto questo ha profonde implicazioni per la motivazione linguistica, tanto che, superata la tradizionale opposizione strumentale/integrativo, si sta passando al concetto di identificazione all’interno del concetto di sé dell’individuo. Si parla così di un “sé ideale della L2” (Ideal L2 Self), che sarebbe l’aspetto, specifico alla L2, del proprio sé ideale, o, in altre parole, l’aspetto linguistico dell’identità globale che l’individuo vorrebbe sviluppare (Dörnyei e Ushioda 2009). Quando si impara una L2 come lingua straniera, e in particolare per adolescenti che la studiano a scuola, il processo di identificazione può estendersi, al di là della lingua, ai valori culturali e intellettuali che la lingua stessa esprime.

 

Questo forte radicamento della L2 nella personalità è confermato da molte altre metafore:

 

·  avere il passepartout in un albergo, poter entrare in qualsiasi stanza senza fatica riuscendo ad adattarmi al tipo di camera che mi troverò di fronte (V)

·  poter camminare senza l’aiuto di niente e di nessuno perché nel momento in cui si sa una lingua è anche possibile orientarsi nel mondo senza chiedere aiuto a nessuno … indipendentemente (II)

·  sentirmi intelligente (II)

·  sentirmi più grande e più responsabile e ovviamente anche più sicura di me stessa (II)

·  avere un grande potere, come Cristiano Doni che si sente superman con la maglia dell’Atalanta (V)

 

Qui si vede chiaramente l’impatto degli apprendimenti linguistici sull’autostima personale. Sembra che questi ragazzi sentano con il cuore, ancora prima di capire con la testa, alcune cose importanti: la percezione di sviluppare una competenza flessibile (“adattarmi al tipo di camera …”), la percezione di diventare più autonomi e indipendenti, la percezione di un aumento del proprio senso di auto-efficacia e della sicurezza di sé – tutti fattori che giocano un ruolo cruciale nell’età evolutiva.

 

D. Padronanza di un sistema formale

 

Questi non sono i soli aspetti del “sapere una lingua” che hanno rivelato queste metafore, anche se sono quelli più frequenti. Sono emersi anche altri aspetti, che toccano sensibilità diverse ma comunque importanti, ad esempio:

 

·  conoscere tanti vocaboli di quella lingua e saperli pronunciare correttamente tutti! (V)

·  padronanza lessicale e delle costruzioni, abbastanza da non dare a vedere troppo che si è stranieri (IV)

·  essere un computer con più dati (II)

·  essere un vocabolario/dizionario (I)

·  inserire dentro di me un piccolo traduttore (II)

·  fare una specie di ripasso dell’italiano, visto che se non si ha una buona base di grammatica italiana non si può sperare di sapere quella straniera (II)

 

Specialmente negli studenti più giovani, è spesso rintracciabile l’idea del sapere una lingua nel senso di essere padroni di un sistema formale, fino al punto di concettualizzare l’apprendimento come una specie di meccanismo automatico che verrebbe introiettato. Ma si noti anche la preoccupazione di apparire “straniero” – cioè, ancora una volta, il persistere dell’ideale del parlante nativo, a cui ho già accennato. Recentemente François Grosjean ha riassunto in un libro quelli che lui chiama gli atteggiamenti, o meglio i “miti”, nei confronti del bilinguismo: “In Europa, per esempio, il bilinguismo è visto favorevolmente ma la gente ha degli standard molto alti rispetto a chi dovrebbe essere considerato bilingue. [I bilingui] dovrebbero avere una conoscenza perfetta delle loro lingue, non avere accenti, e persino, in alcuni paesi, essere cresciuti sin da piccoli con le loro due (o più) lingue” (Grosjean 2010). Forse i nostri studenti hanno assorbito almeno in parte questo tipo di “miti”.

 

 

5. Che cosa significa “imparare” una lingua straniera?

Queste ultime metafore fanno da ponte alla seconda domanda di fondo di questo sondaggio, che riguardava le convinzioni e gli atteggiamenti nei confronti del processo di apprendimento di una lingua. Tutte le metafore di questa sezione sono state prodotte come completamento della frase-stimolo: Per me imparare una lingua straniera è come …

A. La motivazione intrinseca

 

·  giocare a calcio, indispensabile  (IV)

·  fare shopping: soddisfacente (II)

·  giocare con un puzzle, dove ogni parola corrisponde ad un pezzo e le combinazioni possibili sono infinite (I)

·  risolvere un enigma (IV)

·  cogliere una rosa. Bisogna stare attenti alle spine, ma ciò è insignificante rispetto alla bellezza e al profumo che ci dona (V)

·  mangiare un panino con la nutella (IV)

 

Molti ragazzi hanno espresso l’idea dell’imparare una lingua come un gioco, come un’esperienza piacevole, interessante, soddisfacente. E’ l’atteggiamento che più si avvicina all’idea di motivazione intrinseca: si noti che si tratta sia di una sfida cognitiva (“risolvere un enigma”), sia di un coinvolgimento emotivo intenso. Ovviamente questi sono gli atteggiamenti che gli insegnanti spesso auspicano, gli atteggiamenti che più gratificano sia chi impara che chi insegna. Però non è questo, forse, l’aspetto più intrigante emerso dalle metafore.

 

B. Esperienza faticosa ma produttiva

 

·  scalare l’Everest (II)

·  arrivare sulla luna (IV)

·  guadare un fiume: troverò degli ostacoli ma arrivata alla riva sarò soddisfatta di me stessa (III)

·  fare surf – le prime volte scivoli sulla tavola ma dopo un po’ di fatica sei in grado di cavalcare l’onda (V)

·  aver costruito una casa piano piano, e prestando attenzione a porre ogni mattone nel modo giusto (II)

·  un’impresa titanica (V)

 

Un grande numero di metafore punta su qualcosa di diverso dal puro piacere, insistendo invece sull’idea di un’esperienza molto faticosa e gravosa ma nello stesso tempo produttiva. E’ chiara la percezione, da una parte, degli obiettivi impegnativi che ci si pone, ma, dall’altra, anche dello sforzo e della costanza necessari, degli ostacoli da affrontare, della flessibilità e della gradualità richiesti da questa “impresa titanica”. Questa visione combina assieme la percezione del valore del compito con la percezione di competenza e con l’aspettativa di successo: si dà valore a quello che si fa e, nello stesso tempo, si ha fiducia nelle proprie capacità, aspettandosi in tal modo di riuscire. Si tratta di componenti fondamentali della motivazione ad apprendere.

 

C. Esperienza faticosa e senza speranza; demotivazione

 

Un grande numero di metafore sottolinea tuttavia un atteggiamento molto diverso:

 

·  sapere tutto del calcio, tutte le facce dei giocatori … è impossibile (II)

·  camminare sulle acque … impossibile (II)

·  imparare a giocare a scacchi ad occhi chiusi … quasi impossibile (IV)

·  imparare qualcosa che è fisicamente, mentalmente, … e chimicamente impossibile … (II)

·  correre a piedi nudi sui sassi (V)

·  essere sotto una grandinata torrenziale con granelli di 2 cmq che non ti permettono di capire dove sei (II)

 

In tutti questi casi non è tanto il valore della lingua o del suo apprendimento ad essere messo in discussione, quanto piuttosto la propria abilità, la propria percezione di competenza: la percezione forte di non possedere gli strumenti adeguati, di essere in balia di fattori esterni incontrollabili e, quindi, di non potersi permettere aspettative di successo - cioè il contrario dell’atteggiamento positivo e fiducioso che permeava le metafore precedenti.

 

·  fare un lungo viaggio senza destinazione (III)

·  dover imparare qualcosa che non ha niente a che fare con me (III)

·  boh, io so pochissime cose della lingua straniera che studio (II)

 

In metafore come queste colpisce il senso di impotenza, di estraneità, di rinuncia. Sono i segni dell’impotenza appresa (learned helplessness), un senso di impotenza che è anche il risultato dell’accumulo di esperienze fallimentari. Leggere tutte assieme queste metafore è come avere una fotografia, magari impietosa ma realistica, delle differenze che possono esserci all’interno di una classe: un mettere allo scoperto che dietro le apparenze, sotto la superficie, si ha sempre a che fare con una realtà complessa e eterogenea. Ma queste “voci dalla classe” sollecitano anche a non dimenticare qual è l’impatto delle esperienze vissute in classe: in particolare, ribadiscono come sia importante che i compiti di apprendimento risultino non soltanto cognitivamente rilevanti, coinvolgenti e orientati a obiettivi chiari e condivisi, ma anche che abbiano in sé la potenzialità affettiva di promuovere la percezione di competenza e le aspettative di successo.

 

D. Apprendimento come “cominciare da zero”

 

Vorrei terminare facendo notare un paio di aspetti che sono emersi con grande frequenza, e che meritano quindi la nostra attenzione:

·  un bimbo che inizia la prima elementare, nel senso che io quando ero in 1° el. ho imparato l’italiano, adesso è come se ricominciassi in un altro paese (I)

·  ritornare una bambina che deve imparare tutto per esprimersi e farsi comprendere (V)

·  crescere una seconda volta (II)

·  parlare due tipi di italiano perché significa saperla parlare proprio bene (II)

·  studiare italiano solo in un’altra lingua con altre forme verbali (I)

 

E’ emersa la forte percezione che imparare una lingua straniera sia come ripartire da zero e tornare bambini, con un parallelismo a volte molto marcato tra L1 e L2. E’ come se acquisizione naturale e apprendimento scolastico fossero identici, come se l’esperienza acquisita, non solo linguisticamente, nella lingua madre, ma anche globalmente, come individuo ormai adolescente, non contasse nulla. Questo tipo di convinzioni è ovviamente carico di conseguenze: si pensi non soltanto a quanto spesso nell’insegnamento si punta ad attivare conoscenze pregresse e abilità acquisite, ma anche a come è diverso l’apprendimento esplicito di una lingua, al peso che giustamente viene dato ai fattori di contesto nell’imparare da adolescenti una lingua a scuola. Queste metafore aprono una finestra importante sulle implicazioni cognitive e insieme affettive del “tornare bambino”, specialmente se poi si associano, come accade spesso, all’idea della competenza da raggiungere come padronanza assoluta della lingua. In estrema sintesi, la convinzione di molti di questi studenti sembra essere: “si parte da zero e si deve arrivare ad un fantomatico livello madrelingua”.

 

E. Affinità con altre discipline e altre abilità complesse

 

Alcune ultime metafore sembrano in parte controbilanciare quanto si è appena osservato:

 

·   studiare tutte le altre materie, solo parlando diversamente e divertendomi di più (I)

·   sapere e conoscere un’altra materia scolastica, ma spesso di importanza superiore (II)

·   andare a scuola: può non essere divertente, ma rende la vita migliore (III)

 

Alcuni ragazzi sembrano equiparare lo studio di una lingua alle altre materie scolastiche, anche se la considerano più divertente o più importante …

 

·   imparare a giocare a calcio (odio il calcio) (II)

·   cantare, non tutti sono capaci … (IV)

·   saper fare una torta, dopo aver imparato i procedimenti e avendo tutti gli ingredienti (V)

·   cucinare: non basta la ricetta (V)

·   saper guidare la propria macchina, conoscere le sue reazioni (IV)

 

D’altro canto, sono anche molte le metafore che mettono in parallelo le abilità linguistiche con altre abilità complesse, come saper suonare, cantare, fare sport, cucinare, guidare un’auto. E’ intrigante, in diversi studenti, la consapevolezza che tutte queste abilità implicano non solo delle conoscenze (come gli ingredienti di una torta) ma anche delle procedure (la ricetta), così come l’idea che “non tutti sono capaci”, che invita ad aprire in classe un discorso molto interessante sul significato e il ruolo dell’attitudine, o meglio delle attitudini, nell’imparare una lingua (cf. in proposito Mariani 2010). E infine, colpisce l’immagine del “conoscere le reazioni della propria macchina”: una bella immagine, che ci ricorda quanto conta nell’imparare il conoscere se stessi, i propri punti di forza e di debolezza, e che ci riporta ad uno dei riferimenti iniziali di questo contributo, a quella competenza esistenziale legata alla consapevolezza del proprio profilo individuale di persona che sta imparando.

 

 

6. Conclusione

 

Come si è detto, la parte più significativa di questo sondaggio è stata la possibilità, per gli studenti e i loro insegnanti, di verbalizzare e di socializzare le loro convinzioni e i loro atteggiamenti, cioè di portare allo scoperto questo lato nascosto della competenza. In misura diversa, a seconda del tempo, delle energie, delle opportunità disponibili, molti insegnanti sono partiti dai dati della loro classe per aprire uno spazio di discussione, per confrontare i punti di convergenza e di divergenza. Questo può essere un buon punto di partenza per condividere percezioni, per diventare più consapevoli delle dinamiche di classe, e magari anche per cominciare a mediare e negoziare tra posizioni diverse. Sono convinto che anche iniziative come questa servano a migliorare la qualità della comunicazione in classe e a rendere i processi decisionali più trasparenti e più condivisi.

 

Riferimenti bibliografici

Arnett J.J., 2002, “The Psychology of Globalization”, American Psychologist, Vol. 57 (10), pp. 774-783.

Barcelos A.M., 2000, Understanding Teachers’ and Students’ Language Learning Beliefs in Experience: A Deweyan Approach, PhD Dissertation, University of Alabama, Tuscaloosa.

Bernat E., Gvozdenko I., 2005, “Beliefs about Language Learning: Current Knowledge, Pedagogical Implications, and New Research Directions”, TESL-EJ, Vol. 9, No. 1, pp. 1-21.

Deci E., Ryan R., 1985, Intrinsic Motivation and Self-determination in Human Behaviour, Plenum, New York.

Dörnyei Z., Ushioda E. (eds.), 2009, Motivation, Language Identity and the L2 Self, Multilingual Matters, Bristol.

Dörnyei Z., Ushioda E., 2010, Teaching and Researching Motivation, Longman, Harlow.

European Commission, 2002, European Year of Languages 2001: Some Highlights, Director General for Education and Culture, http://europa.eu.int/comm/education/languages/index.html

Horwitz E., 1988, “The Beliefs about Language Learning of Beginning University Foreign Language Students”, Modern Language Journal, Vol. 72, pp. 283-294.

Huang Z., 2006, “Learner Beliefs of Language Learning Revisited”, Sino-US English Teaching, Vol. 3, No.3 (Serial No.27), pp. 62-67.

Cotterall L.S., 1995, “Readiness for Autonomy: Investigating Learner Beliefs”, System, Vol. 23, No. 2, pp.195-205.

Gabillon Z., 2005, “L2 Learner's Beliefs: An Overview”, Journal of Language and Learning, Vol. 3, No. 2, pp. 233-260.

Grosjean F., 2010, Bilingual: Life and Reality, Harvard University Press, Harvard.

Mariani L., 2010, “Attitudini e Atteggiamenti nell’Apprendimento Linguistico”, Italiano LinguaDue, No. 1, pp. 253-270, http://riviste.unimi.it/index.php/promoitals/article/view/641

Mariani L., 2011, “Imparare le Lingue Straniere a Scuola. Una ricerca sulle Convinzioni e gli Atteggiamenti degli Studenti”, Lingua e Nuova Didattica, Anno XL, No. 5.

Mercer S., 2008, “Learner Self-beliefs”, English Language Teaching Journal, Vol. 62, No. 2, pp. 182-183.

Nunan D., 1995, “Closing the Gap between Learning and Instruction”, TESOL Quarterly, Vol. 29, No.1, pp. 133-158.

Peacock M., 1998, “Exploring the Gap between Teachers’ and Learners’ Beliefs about ‘Useful’ Activities for EFL”, International Journal of Applied Linguistics, Vol. 8, No. 2, pp. 233-250.

Richards J., 1994, "The Sources of Language Teachers' Instructional Decisions", Perspectives, a Journal of TESOL-Italy, Vol. XX, No. 2, pp. 5-22.

Victori M., Lockhart W., 1995, “Enhancing Metacognition in Self-directed Language Learning”, System, Vol. 23, No. 2, pp. 223-234.

Wenden A., 1991, Learner Strategies for Learner Autonomy, Prentice-Hall, Hemel Hempstead.


Home   Presentazione   Autoformazione   Collegamenti   Pubblicazioni   Rilassati ... con stile

 www.learningpaths.org   luciano.mariani@iol.it