STILI DI APPRENDIMENTO E DIFFERENZE CULTURALI
Per la Storia Mail, Newsletter Bruno Mondadori, n. 31, 2010
Luciano Mariani
L’insegnante è molto
soddisfatto del lavoro che ha svolto Jiang, uno dei ragazzi cinesi presenti
in classe. Gli si avvicina e, sorridendo, gli dice: “Bravo, Jiang, hai fatto
proprio un bel compito”. Jiang abbassa gli occhi, la fronte aggrottata. Si è
improvvisamente creata un’atmosfera di imbarazzo nel piccolo gruppo di ragazzi
cinesi. L’insegnante è meravigliato: che Cheung sia così timido
e introverso? Che non abbia capito quello che gli è stato detto? Che
abbia problemi con i suoi compagni ? Oppure …?
Percezioni, convinzioni, stili
comunicativi
Il successo nella comunicazione in ambienti multiculturali, come una classe in cui siano presenti alunni stranieri, è una funzione di tre fattori culturalmente condizionati: gli orientamenti percettivi e cognitivi, cioè come le persone percepiscono, organizzano e rielaborano i dati di realtà; i sistemi di convinzioni, cioè gli atteggiamenti, i valori, le aspettative, i significati che le persone attribuiscono alle loro esperienze; gli stili comunicativi, cioè le preferenze per forme particolari della comunicazione verbale e non-verbale.
Non c’è dubbio che la realtà, fisica e sociale, venga percepita in modo diverso da culture diverse, e la lingua, che non è soltanto un sistema di comunicazione, ma anche di rappresentazione della realtà percepita, ne sia un fedele, costante testimone: è noto, ad esempio, come la lingua Inuit (o eschimese ) possieda molte parole per indicare la neve, mentre alcune lingue dello Zaire non ne hanno alcuna; o come alcune lingue delle Micronesia abbiano una sola parola per indicare allo stesso tempo il colore blu e il colore verde. Allo stesso modo, sappiamo che le forme per rivolgere la parola variano in molte lingue a seconda dello status della persona a cui si parla: tu/lei, du/Sie, tu/vous rispettivamente in italiano, tedesco, francese – ma solo you in inglese. Molte lingue asiatiche usano addirittura forme diverse a seconda dello status della persona che parla. La lingua, anche in questo caso, riflette non solo percezioni e cognizioni diverse, ma anche sistemi di valori differenti, come i rapporti di potere tra gli individui.
Anche gli stili comunicativi riflettono modi diversi di concettualizzare, rappresentare, esprimere la realtà fisica e sociale, attraverso comportamenti verbali e non verbali fortemente connotati. Ad esempio, la ricerca ha messo in luce la differenza tra uno stile comunicativo lineare, che parte da un’introduzione, sviluppa sistematicamente l’argomento punto dopo punto e arriva ad una conclusione esplicita, rispetto ad uno stile circolare o contestuale, che accumula informazioni senza un apparente “filo logico”, giungendo spesso ad una conclusione implicita o lasciata alla percezione dell’interlocutore. E’ questa seconda modalità a prevalere in molte culture (tra cui quelle africane, latine, arabe e asiatiche), con evidenti implicazioni per la comunicazione interculturale.
In definitiva, gli stili di apprendimento sono culturalmente condizionati. L’interfaccia tra “natura” e “cultura”, tuttavia, non è semplice da definire. Le persone molto probabilmente non nascono con una predisposizione genetica per una preferenza visiva o uditiva, analitica o globale, ma “imparano ad imparare” attraverso i processi di socializzazione a cui sono esposti in famiglia, nei gruppi di parentela e di amicizia e successivamente a scuola. Come fa notare Howard Gardner, “Siamo creature della nostra cultura … tanto quanto siamo creature del nostro cervello”.
Natura,
cultura e contesti
Tutte queste considerazioni possono aiutarci ad interpretare quegli “incidenti critici”, come quello citato all’inizio di questo contributo, che sono così tipici degli scambi comunicativi interculturali. Gli studenti cinesi, che sono spesso descritti dai loro insegnanti come disciplinati, laboriosi, disponibili ad imparare, pronti a memorizzare e con tempi di attenzione notevolmente lunghi, condividono, insieme ad altre popolazioni del sud-est asiatico, una “cultura dell’insegnamento e dell’apprendimento” che ha origine nel Confucianesimo. Questa cultura enfatizza i benefici delle relazioni gerarchiche fisse, insieme ad una forte responsabilità personale che implica diligenza, sforzo e persistenza, in una visione di lavoro cooperativo in cui non è in gioco la promozione dell’individuo quanto il sostegno reciproco per il raggiungimento del bene comune. In questo senso il comportamento del ragazzo cinese citato all’inizio potrebbe essere ricondotto proprio alla marcata sensibilità per il gruppo di riferimento e alla preoccupazione di mantenere la coesione del gruppo, evitando di emergere come individui. Come dice un proverbio giapponese, “Il chiodo che spunta fuori viene ribattuto dentro”.
Naturalmente, molte cautele sono d’obbligo quando si danno questo tipo di interpretazioni. Innanzitutto, è fin troppo facile adottare una visione etnocentrica e cadere nella trappola delle “inferenze culturali”, adottando la propria “lente interpretativa” per dare significato alle esperienze (il drago, che per le culture occidentali si accompagna a idee di pericolo, violenza, combattimento, in Cina è invece simbolo di fortuna). Inoltre, gli stereotipi sono sempre in agguato e non è raro arrivare a considerare il singolo individuo come un rappresentante “tipico” della cultura a cui appartiene, negando così la sua stessa individualità (e dimenticando che spesso le differenze all’interno di un gruppo sono maggiori delle differenze tra gruppi). Infine, occorre sempre tenere ben presente l’interfaccia tra natura, cultura e contesti: così, ad esempio, la “memorizzazione” come forma di apprendimento, esibita da molte culture asiatiche, invece di altri approcci considerati nel mondo occidentale “più profondi” (come la comprensione analitica, il pensiero critico e creativo, l’approccio per problemi), potrebbe essere adottata anche da qualunque studente, a prescindere dalla propria cultura, come reazione ad un contesto di apprendimento (insegnanti, curricoli, esami) che punta magari proprio alla riproduzione di informazioni piuttosto che alla rielaborazione critica delle stesse.
Le
implicazioni pedagogiche e didattiche
Le implicazioni pedagogiche e didattiche che si possono trarre da tutte queste considerazioni sono molteplici. Non c’è dubbio che sia necessario, in prima istanza, conoscere per capire, ossia documentarsi e informarsi sulle caratteristiche di una cultura “altra”, anche per cominciare a relativizzare la propria: non è secondario sapere che la solidarietà di gruppo può essere importante per gli studenti asiatici, o che gli studenti latino-americani possono preferire una presentazione di concetti più “globale” e contestualizzata piuttosto che “analitica” e astratta. Tuttavia, questo è solo un primo passo, che si rivela presto limitato in quanto non è praticamente possibile crearsi un’”enciclopedia” dei tratti culturali per ogni singolo gruppo etnico (oltre ad esporsi all’ovvio e già citato pericolo degli stereotipi). E’ necessario passare ad un secondo, certamente più impegnativo, livello di intervento, in cui il significato delle esperienze e dei comportamenti individuali e di gruppo deve essere negoziato, attraverso la verbalizzazione, la socializzazione, il confronto esplicito delle percezioni e delle emozioni all’interno del gruppo in cui lavora. Molti “incidenti culturali” possono costituire dei punti di partenza per una riflessione che porti gradualmente a riconoscere, tollerare, accettare, rispettare e, infine, anche ad apprezzare le differenze e persino integrarle in una nuova sintesi condivisa.
In termini di intervento didattico più esplicito, bisogna riconoscere che la presenza di differenze culturali in una classe (come di ogni altro tipo di differenza) non fa che riproporre uno dei dilemmi “classici” dell’educazione, e cioè, se sia la scuola a doversi adattare agli individui o se siano gli individui a doversi adattare. Sia la ricerca pedagogica che l’esperienza sul campo degli insegnanti sembrano suggerire l’evitamento del “dilemma secco” a favore di posizioni di mediazione, in cui le esigenze degli individui devono contemperarsi con le caratteristiche dei contesti di classe e della “cultura dell’apprendimento” che ogni classe rappresenta.
Mediare significa, da un lato, riconoscere l’eterogeneità del gruppo-classe e rispettarla variando gli approcci didattici, offrendo cioè una gamma di strumenti, materiali, attività, che possa andare incontro il più possibile ad una varietà di stili di apprendimento. L’offerta di stimoli visivi (verbali e grafici), ma anche uditivi e cinestetici; l’uso di materiali organizzati in modo analitico e globale, sistematico e intuitivo; l’utilizzo di procedure di memorizzazione accanto ad approcci rielaborativi più complessi; l’organizzazione del lavoro con modalità individuale, a piccoli gruppi e a classe intera … sono tutti esempi di una flessibilità dell’insegnante che riconosce e valorizza i profili individuali e di gruppo e le differenze che essi rappresentano.
Tuttavia, chi studia ha anche bisogno di poter rispondere in modo altrettanto differenziato e “adattivo” alle richieste degli ambienti di apprendimento, imparando nuovi ruoli e adottando approcci diversi: in altre parole, potenziando la propria flessibilità come studente. Per aiutare gli individui e i gruppi a fare questo, è necessario un intervento complementare, che preveda l’insegnamento esplicito di strategie di apprendimento, la riflessione metacognitiva sui compiti, sulle difficoltà incontrate e sulle strategie utilizzate, e l’uso di strumenti di valutazione e autovalutazione che rendano le persone sempre più consapevoli dei propri punti di forza e di criticità proprio in relazione ai contesti in cui si trovano a vivere, lavorare, apprendere.
Anche in questo modo, attraverso la mediazione metodologica e didattica, si può tentare di vincere la sfida della comunicazione interculturale in classe.
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